GOTI IGNOTI

GOTI IGNOTI

(storie di immigrati nel Basso Impero Romano)

 

 

Introduzione

 

            Ignoti perché Goti, ignoti perché immigrati, e ignoti soprattutto perché nati nel Basso Impero Romano.

            Basso Impero! Lo si sente nominare a scuola verso la fine del programma di storia antica, quando in giro c'è già un forte invitante profumo di primavera e non si vede l'ora di andare in vacanza. Quando poi a settembre si riprende a studiare storia, si riparte dal medioevo, e così questo Basso Impero il più delle volte rimane un mondo dimenticato.

            Altro che la Roma dei film come "Quo vadis?" o "Il gladiatore"! Dalla Roma pimpante di quei tempi al Basso Impero sono ormai passate centinaia e centinaia di anni, e i modi di vivere e i costumi non possono certo più essere gli stessi. Se potessimo vedere come va vestita la gente in giro, o anche solo i soldati, ci troveremmo a dir poco meno disorientati.

 

            Non che l'Impero Romano non ci sia più. C'è ancora, eccome, è ancora tutto intero, ma..

            Tanto per cominciare non è più un impero pagano ma cristiano, e i cristiani ora non vivono più nel terrore di persecuzioni e leoni. Anzi, adesso sono loro a perseguitare chi non ha la loro fede, smantellando sistematicamente e inesorabilmente tutti i templi pagani. Ma c'è una cosa che non riescono a smantellare, la schiavitù: è un'istituzione troppo radicata e basilare per l'economia dell'Impero, per poterne fare a meno.

In cambio le tasse spremono talmente i cittadini che, oltre Po, si verificano casi di ribellioni in bande armate.

 

            Se poi potessimo ascoltare cosa dice la gente della strada avvertiremmo nell'aria una terribile angoscia, quasi palpabile: i barbari premono sempre più numerosi al "limes", il confine della civiltà, e tutti sanno che prima o poi riusciranno a sfondarlo per distruggere ogni cosa.

 

            Roma, la mitica città che dà il nome all'Impero, non è più centro di potere. L'imperatore risiede dove si sente più sicuro. Nel 383, anno in cui si svolgono le vicende dei Goti ignoti, la capitale dell'Impero Romano non è più Roma, ma... Milano!.

 

            Orbene, in un mondo così caotico e dimenticato, chi potrebbe far caso a una piccola storia di immigrati goti?

 

 

§ 1. Villaggio goto sul fiume Tisza

 

Seduti intorno al fuoco, ascoltavamo con grande pazienza il vecchio capo villaggio che, con voce tremula, rievocava ancora una volta il giorno in cui, nella pacifica vita che il nostro popolo conduceva sulle rive del mare d'Azov, si era levato il grido: "Fuggite! Stanno arrivando dei guerrieri sconosciuti!"

E, a quel grido, ecco irrompere file interminabili di crudeli e animaleschi esseri dagli occhi a mandorla. Si facevano chiamare Unni, e provenivano dalle misteriose profondità della steppa orientale. Avevano sfondato le Porte Caspiche e ora dilagavano nei nostri villaggi seminando morte e dolore. Quel giorno erano cominciate le nostre sofferenze. Quei guerrieri non avevano mai smesso di perseguitarci e di sospingerci sempre più a Ovest, verso i confini dell'Impero Romano.

 

            Come ogni volta che ascoltavo questa storia, io mi stringevo impaurito al braccio di mio fratello Bautone, che mi accarezzava la testa con la sua grossa mano protettiva.

            Bautone era alto, fortissimo e biondo.

Come tutti noi Goti, d'altronde.

Lui però era il più grosso di tutti. E la sua mole mi dava un piacevole senso di protezione. Tanto più che era rimasto il mio solo sostegno, dopo che la carestia di quell'anno aveva distrutto la nostra famiglia.

            Io volevo molto bene a Bautone, e mi arrabbiavo da morire tutte le volte che sentivo ripetere sul suo conto una calunnia che non riuscivo proprio a capire da dove fosse venuta fuori. Si sussurrava che lui un giorno, nella foresta, aveva ucciso un uomo a cavallo.

Assurdo!

Mio fratello che ammazza?

Impossibile!

lo sapevo bene quanto Bautone fosse di animo nobile, e sapevo ancora meglio quanto nostra madre ci avesse educati a rispettare ogni uomo e ogni vita. Certo, lui era un gigante impulsivo, guai a farlo arrabbiare! Ma da questo a dire di lui che era un assassino, eh no! Erano tutte bugie, messe in circolazione da chi invidiava la sua forza e provava gusto a renderci la vita scomoda.

 

            Dopo la rievocazione del vecchio capo, attorno al fuoco prese la parola un altro personaggio, non molto anziano, ma molto sdentato: Gramio. Nella sua capigliatura in massima parte bianca, si intravedevano benissimo dei capelli neri, neri come quelli dei Romani. Sì, perché Gramio non era Goto di nascita, ma Romano.

            Così come il vecchio capo villaggio, anche Gramio non disse nulla di nuovo. Ripeté ancora una volta, fidandosi del nostro deferente ascolto, la sua solita storia di quando viveva nelle Gallie. Era talmente spremuto dalle tasse che non riusciva nemmeno a procurarsi di che mangiare. Ecco perché non aveva trovato altra possibilità di sopravvivenza che scavalcare il "limes" della civiltà romana per riparare nel nostro territorio barbaro, che chiamava il suo "paradiso fiscale". Qui, tra di noi, aveva potuto metter su una fattoria e ricostruirsi una vita.

            Quando Gramio ebbe finito il suo racconto, mio fratello gli chiese: «Ma come fanno, i romani dell'Impero, a sopportare così tante angherie?

            «Il fatto, amico mio, è che le angherie sono solo per alcuni, non per tutti», rispose Gramio con atteggiamento rassegnato. «Nessuna angheria, ad esempio, viene perpetrata nei confronti dei ricchi, né degli ecclesiastici... e nemmeno di quei cittadini che vivono dentro le mura di Roma. Per questi ultimi c'è addirittura l'Annona che provvede a tutto, sia che si tratti di un anno di abbondanza che di un anno di carestia, perché sempre e comunque a Roma arrivano le navi che, dalle province più lontane, portano grano e carne suina per sfamare la città!»

            «Allora dev'essere una gran bella cosa, essere cittadino di Roma!» esclamò Bautone con un grande sospiro.

Io strinsi più forte il suo braccio, intuendo che nella sua testa stava prendendo forma un'idea che non mi piaceva affatto.

            E infatti mio fratello continuò: «Qui noi Goti viviamo tra nebbie, gelo, incalzare di Unni, fame e malattie. Io voglio avere un futuro, per me e per Valrico, questo mio fratellino di otto anni che mi sta sempre appiccicato al braccio. Se è vero che esiste un posto come Roma, io ci voglio andare! Non per essere sfamato gratis, no, io sono ben pronto a lavorare... Ma io voglio stabilirmi lì!»

            «A Roma tu?» ridacchiò Gramio. «Ma non ci potrai mai arrivare! E quand'anche fosse, ricordati che lì non potrai mai trovare lavoro, perché tu sei sempre un Goto, e i Romani considerano i Goti una razza inferiore. Amico, desisti, il tuo è un sogno impossibile!»

            «Impossibile?» ribatté Bautone. Sentii nel suo braccio il sangue scorrere più forte. «Lo vedremo!» concluse con tono di sfida.

 

 

§ 2. Oltre il "limes"

 

            Il Danubio segnava il confine dell'Impero.

I traghettatori ci avevano ammassato sulla sua riva sinistra, in piena notte. Meno male che stavo con il mio grosso fratello, altrimenti mi sarei messo a piangere dalla paura, circondato come ero dal buio, dai versi degli animali notturni e da gente la più varia proveniente da chissà dove. Tutti tacevamo, in un'atmosfera di attesa e trepidazione.

 

            Per farci sbarcare sulla riva opposta - in territorio romano quindi - ci avevano chiesto una fortuna: 10 solidi d'oro a testa. Non era stato per nulla facile mettere insieme tutti quei soldi, ma vendendo tutto quello che avevamo, e con l'aiuto dei parenti, alla fine Bautone ed io eravamo riusciti a mettere insieme la somma necessaria. Certo, in questo modo sapevamo benissimo di esserci preclusi ogni possibilità di tornare indietro. Ma avevamo un obiettivo ben preciso: Roma!

 

            Dopo un po' i traghettatori ci fecero salire tutti quanti su una grossa chiatta e ci inoltrammo nel fiume. C'era un diffuso tenue chiarore di luna. Ma io tremavo come una foglia. Bautone, invece, per farsi coraggio, scambiava sottovoce qualche parola con i nostri compagni di viaggio.

            «Voi da dove venite?»

            «Dai laghi del Nord! E voi due?»

            «Io e Valrico veniamo da un villaggio sul fiume Tisza».

            «Venite da così vicino?» intervenne un altro «Che fortuna la vostra! Noi invece siamo in viaggio da due mesi, veniamo dai confini della Persia»

            «Addirittura?»

            «Silenzio!» intimò il traghettatore.

 

            Quando finalmente la chiatta toccò la riva dell'Impero, i traghettatori ci fecero sbarcare in tutta fretta. «Quello per cui siamo stati pagati l'abbiamo fatto. Ora tocca a voi. Buona fortuna!» dissero abbandonandoci al nostro destino. E si dileguarono nel buio.

            «E adesso?» chiesi a Bautone.

            Ma mio fratello non ebbe tempo di rispondermi. Perché una strana luminosità illuminò i cespugli che ci circondavano, divenendo via via più intensa, fino ad abbagliarci improvvisamente. Erano torce!

            Con l'umidità che mi penetrava nelle ossa, la prima impressione che ebbi, vedendo quelle torce, fu piacevole: fuoco, calore, casa. Ma si trattava di tutt'altra cosa. Erano le fiaccole dei militi romani che, sulle loro barche-vedetta, se ne erano stati per tutto il tempo acquattati a spiarci da dietro la vegetazione, in attesa di sbucare fuori all'improvviso e sorprenderci.

            Ci piantarono la luce in faccia. E ci sentimmo persi. Un vocione prese a gridarci intimazioni in latino, di cui non capivamo una sola parola. Sapevamo solo che eravamo stati scoperti! Tentammo istintivamente di fuggire qua e là, ma venimmo subito acciuffati. Tutti. Compresi i traghettatori che non avevano fatto in tempo ad allontanarsi sulla loro chiatta.

            I militi la requisirono e la diedero alle fiamme. Al chiarore crepitante di quel fuoco, ci incatenarono l'uno all'altro. E ci portarono via, facendoci camminare per ore. Solo quando spuntarono le prime luci dell'alba, arrivammo finalmente a una specie di fortino.

 

 

§ 3.Campo profughi

 

            Si trattava di un agglomerato di capanne e tende recintato da una palizzata. Pareva essere stato predisposto solo per noi. E da tempo. Quasi ci attendessero.

            «Benvenuti nella provincia romana di Valeria!» gracchiò un soldato. «Siete finalmente giunti nel famoso campo profughi di Mursa», continuò, «dove potrete riposare e rimettervi in forze!» E si abbandonò a una risata sguaiata, che si propagò immediatamente tra i suoi commilitoni.

 

            Nel campo c'erano già altri prigionieri, tutti profughi catturati sul Danubio.

            Molti di loro ci guardarono arrivare con sospetto e ostilità, altri invece si avvicinarono a noi sorridendo.

            Un ragazzino, magro come uno sterpo, mi sorrise e mi chiese:

            «Tu come ti chiami?»

            «Valrico», risposi timidamente. «Ho otto anni. E tu?»

            «Io sono Macrino e ne ho quasi dodici».

            «E' da molto che stai qui?»

            «Sì, perché come vedi sono malaticcio, e valgo poco!»

            «Che vuoi dire?» intervenne sospettoso Bautone, che fino ad allora aveva ascoltato il nostro dialogo con bonaria disattenzione.

            Macrino lo guardò in faccia con l'aria di uno che la sa lunga, e spiegò: «Dico soltanto che nessuno mi vuole comprare!»

«Perché? Sei in vendita?» chiese allarmato Bautone.

«Ma che succede, gigante biondo, ti stupisci? Non hai ancora capito che noi tutti che siamo finiti qui, siamo destinati ad esser venduti come schiavi?»

            «Schiavi?» esclamò Bautone disperato. «Oh, no! Allora abbiamo lasciato le nostre case unicamente per finire senza più libertà... in territorio straniero!»

            «È così, purtroppo. I militi sanno benissimo che chi ha l'ardire di traversare il Danubio è di solito una persona forte e sana. E queste sono doti che, per chi vende schiavi, significano soldi, e tanti soldi!»

            Bautone si nascose la faccia nelle mani. Io rimasi sconcertato, e cercai di consolarlo accarezzandogli la testa. Lui se ne accorse, e cercò di sorridermi.

 

            Quando calò la sera, molti tra i prigionieri sentirono il bisogno di pregare.

            Alcuni tirarono fuori dalle loro bisacce delle statuine sacre e tentarono di accendervi davanti dei moccoli.

Ma i soldati, appena se ne accorsero, presero a calci statuine e moccoli disperdendoli lontano. «Brutti sporchi pagani!» gridarono. «Come fate ad adorare pupazzi di coccio? Siete proprio animali, meno che uomini! Qui non siete più tra le steppe desolate e infernali che vi hanno generato, ma in un Impero cristiano, dove regna solo la luce e la verità. Qui ogni magia è proibita!»

            «Ma non è magia la nostra, noi preghiamo i nostri dei!»

            «I vostri dei non esistono!» ribatté un soldato. Sfoderò la spada e con un colpo bene assestato spaccò una statuetta che era casualmente rimasta ancora intatta. E se ne andò.

            Noi Goti di religione cristiana pensammo: «Poveri pagani! La nostra fede però è in Cristo, che è lo stesso Dio dei nostri carcerieri. Noi certo potremo pregare liberamente, ci lasceranno in pace!» Così ingenuamente ci riunimmo per intonare una sommessa preghiera corale a Cristo.

Non ci aspettavamo certo che i soldati avrebbero aggredito pure noi. «Tacete, animali!» ci urlarono addosso dandoci degli spintoni per dividerci.

            «Ma cosa stiamo facendo di male? Stiamo pregando Cristo!» rispose Bautone. «Non è cosa che fate anche voi?»

            «Non è così che facciamo noi, ben altre sono le nostre liturgie! La vostra preghiera l'abbiamo riconosciuta, è una preghiera ariana!»

            «È vero, noi siamo cristiani della chiesa ariana. Ma Cristo non è sempre lo stesso?»

            «No, il nostro Cristo non è affatto il vostro! La vostra non è una chiesa, e le vostre non sono preghiere, ma solo bestemmie di infami eretici!»

            Con Bautone ci scambiammo uno sguardo di intesa. Lui ammiccò. Io compresi al volo e, come ci aveva insegnato a fare nostra madre, ci mettemmo a pregare mentalmente.

 

            Se l'aspetto fisico di Macrino era l’immagine stessa della debolezza, il suo cervello però funzionava alla perfezione. Rivedo ancora l'espressione di stupore e di ammirazione di Bautone, quando quel mucchietto di ossa ci rivelò che c'era un modo per fuggire dal campo!

            «Stavo proprio aspettando che arrivasse uno grande e grosso come te!» disse a mio fratello.

            «Perché?»

            «Ora ti spiego. Come vedi, qui i soldati romani sono talmente sicuri della loro superiorità e della nostra debolezza che non ci tengono nemmeno più incatenati!»

            «E allora? A cosa ci può servire non essere incatenati?»

            «A tutto, Bautone. Ora ti spiego. Il fatto che io, come schiavo, valga molto poco, e che quindi nessuno mi voglia comprare, mi ha permesso di stare imprigionato qui a Mursa da parecchio tempo, ed ho così avuto modo di fare caso a tante cose che altri, di passaggio, non hanno avuto il tempo di notare. Ad esempio io so che c'è un punto della palizzata che è più basso, perché lì il legno è marcio. I soldati lo sanno bene, ma non si decidono mai a ripararlo perché tanto sono sicuri che nessuno dei prigionieri sia capace di rendersene conto...»

            Fissai Macrino con aperta ammirazione.

            «E ancora», continuò, «ho notato che alle tre di notte la sorveglianza è praticamente inesistente, perché è l'ora in cui la stanchezza viene giù per tutti, anche per le guardie. Se a quell'ora noi raggiungessimo quel punto, tu, gigante biondo, potresti lanciare me e Valrico al di là della palizzata e poi, con una buona rincorsa, saltare al di là anche tu...»

            «Dall'altra parte? E cosa c'è oltre la palizzata?»

            Macrino sorrise con la sua solita aria da saputello, e rivelò: «Posso rispondere anche a questa domanda! Ebbene, ci sono grossi cespugli di rovi. Cadendo lì sopra ci si graffia, certo, ma almeno non ci si rompono le ossa!»

            «Ma poi, una volta fuori dal campo, dove potremmo mai fuggire?»

            Macrino alzò le sopracciglia. «Tornare indietro, sul Danubio non è possibile!» rispose. «Possiamo solo andare avanti e addentrarci nell'Impero. So che ci sono dei sentieri che si congiungono alla strada che porta a Sciscia. E se mai riuscissimo ad arrivare a Sciscia...»

            «È una città?»                                

            «Sì. Lì abita Corverio, un Goto che aiuta tutti i fuggitivi come noi!»

            «Sei sicuro che non cadremo dalla padella nella brace?» domandò Bautone.

            «Preferisci finire insieme a tuo fratello Valrico tra le centinaia di schiavi che zappano e mietono, sotto la sferza capricciosa dei capi dei domestici?»

            «Facciamo come dici tu!» concluse Bautone.

 

            Devo dire che anche se ero bambino, un piano di fuga come quello di Macrino non mi convinceva affatto. Era troppo elementare per poter funzionare!

Ma mi sarei presto reso conto che il segreto del suo successo era proprio nella sua assurda semplicità.

            Tre di notte, come previsto. Noi, furtivi, sotto alla palizzata. Silenzio. Le guardie assopite.

Bautone prese sulle braccia per primo Macrino, e lo fece volare come un fuscello oltre il recinto. Rumore sommesso del suo atterraggio sui cespugli.

Poi fu la volta mia. Bautone titubava, aveva paura che mi facessi male. Ma non avevamo alternativa e gli dissi che doveva per forza gettami al di là della palizzata. Mi coprii la faccia con le mani e mi consegnai alle sue forti braccia. Volai, e finii anch'io sui rovi. Trattenni il pianto, perché, come previsto, mi graffiai tutto.

            Infine Bautone prese una bella rincorsa e saltò anche lui. Sfiorò la cima della palizzata appoggiandosi impercettibilmente con le mani e planò elegantemente al di là del campo, accanto a noi.

            Le guardie non si erano accorte di nulla. Eravamo liberi!

 

§ 4. Sciscia

 

            Corverio, l'amico di Macrino, aveva la faccia di un topo. Aveva lasciato ancor giovane l'esercito imperiale, in cui aveva militato il tempo necessario a conseguire una sostanziosa buona uscita e la cittadinanza romana.

            A Siscia, dove si era sistemato, aveva messo su un ambiguo giro d’affari, che spacciava per beneficenza nei confronti dei suoi conterranei goti.

            Ad ogni buon conto ci fece una accoglienza cordiale, e ci fece lavare e vestire con abiti puliti. Poi ci fece salire su un carro quasi nuovo per farci fare un giro nella città e capacitarci del lavoro che avremmo svolto per lui.

Arrivati di fronte a un crocicchio fermò il carro. E subito ci si avvicinarono dei barbari biondi molto malconci con un cartello in mano su cui, in un latino incomprensibile, era scritto che morivano di fame loro e i loro figli.

            Appena riconobbero Corverio, il loro padrone, si inchinarono rispettosamente e se ne andarono.

            «Questi sono i lavoratori della fascia più bassa», ci spiegò Corverio. «Accattano e basta. È così che si comincia a lavorare per me. Io chiedo solo la metà del ricavato. Ma dopo sei mesi permetto che si passi alla seconda fascia».

            «E cosa fanno quelli della seconda fascia?» chiese Macrino.

            Corverio gli lanciò un'occhiata divertita. «Forse è la fascia che ti potrebbe piacere di più!», rispose. «Vanno a cantare e suonare nei mercati, nelle piazze, nelle taverne e ovunque ci sia un assembramento di gente. Non importa assolutamente che lo sappiano fare o no. L'importante è che poi passino a recuperare monetine».

            «C'è anche una terza fascia?»

            «Certo, eccola lì!» disse Corverio, facendo cenno di avvicinarsi a un goto che se ne stava rispettosamente in disparte con un secchio in mano. Incoraggiato dal gesto, l'uomo corse vicino al nostro carro e passò uno straccio bagnato sul muso del cavallo rinfrescandolo e detergendogli la bava. Poi si chinò a pulire le ruote del carro. Era evidente che chi avesse ricevuto un tale servizio anche non richiesto, poi si sarebbe sentito nel dovere morale di lasciare al pover'uomo qualche moneta.

            Ma non certo Corverio. Lui schioccò la frusta e fece ripartire il carro.

            «Io però», disse a un certo punto rivolto a Macrino, «non dimentico che tuo padre una volta mi ha fatto fare un buon affare. Per cui, tu e i tuoi amici siete fortunati: io vi inserirò direttamente nella quarta fascia, quella nobile. Non ringraziatemi, per favore. Lo sapete che io ho buon cuore, specie con quelli della mia razza. Magari dovrete accontentarvi per il primo anno di guadagnare solo di che mangiare... Ma poi vedrete che farete carriera...»

            Ci guardammo incuriositi e preoccupati. Cosa ci sarebbe toccato?

 

            Ai bordi della via trovammo spazio sufficiente per stendere le nostre pezze di tela e sistemarvi sopra le mercanzie. Per massima parte erano cinte e borse di cuoio, di pessima fattura, confezionate dalle schiave illiriche di Corverio. Ma il fatto che a venderli fossimo noi, dei Goti, induceva i compratori a credere che si trattasse di artigianato autentico goto portato con noi da oltre Danubio.

            Oltre a quegli oggetti, Corverio ogni tanto ci affibbiava anche certi idoletti di legno intagliato - che rappresentavano Serapide, Giove e la Vittoria - e tempietti in miniatura di luoghi sacri di cui né io né gli altri avevamo mai sentito parlare.

            Io e Macrino trovammo subito questa attività molto divertente. Era come stare in mezzo a tanti e disparati giocattoli. Quanto piaceva a Macrino tirar fuori dal suo sacco gli oggettini uno per volta e poi disporli a terra in un certo modo..! Io cercavo di imitarlo. E ci veniva da ridere. Purtroppo però la sua salute non era un granché, e così, quando rideva, finiva quasi sempre per congestionarsi tutto e tossire. E io mi spaventavo.

            Ma ciò che mi spaventava di più, svolgendo questo lavoro, erano gli ubriachi e i ragazzacci che ogni tanto ci venivano a disturbare tentando di rubarci le mercanzie. Quando questo succedeva non potevamo farci nulla. Guai infatti se qualcuno di noi avesse reagito, saremmo comparsi davanti a un tribuno cittadino che ci avrebbe mandati di filato tutti al mercato degli schiavi. Per Bautone subire provocazioni del genere era ogni volta una durissima prova di sopportazione. Gli sarebbe bastato appioppare un paio di ceffoni qua e là per far volare per aria gli scalcagnati prepotentoni. Ma non lo poteva fare. Lo vedevo arrossire dall'ira. Io pregavo. E lui si tratteneva.

 

            Comunque una parvenza di protezione ce l'avevamo: Corverio aveva un ottimo rapporto con le coorti di polizia urbana. Non so a cosa potesse attribuirsi, forse all'aver fatto parte anche lui di formazioni militari... o forse semplicemente alle mance che dava loro. Fatto si è che i vigili di Sciscia non ci crearono mai grossi problemi.

            L'unico vero problema, se di problema si trattò, ci venne da un monaco.

 

            La prima volta che lo vidi rimasi fortemente impressionato. Era un personaggio lugubre, con una croce di ferro appesa al collo. I suoi capelli erano lunghi e arruffati, emanava il fetore tipico di chi non si lava da mesi, e vestiva di stracci scuri. Mentre camminava tutti si scansavano per lasciarlo passare, inchinandosi e facendo il segno della croce.

            Lo guardai in faccia.

Anche lui mi guardò.

E i suoi occhi si chinarono subito sulle mie mercanzie…

Mi si accapponò la pelle, perché in un lampo mi tornò alla mente la soldataglia che, ancora sulle rive del Danubio, aveva distrutto le statuine sacre di altri fratelli Goti. Percepii chiaramente che gli idoletti e i tempietti in legno che stavo vendendo avevano il potere di accendere l'ira del monaco.

E infatti vidi la sua faccia contrarsi in una smorfia di sdegno. E tuonò: «Questi sono i simboli dell'inferno!»

Bautone, che sempre teneva un occhio vigile su di me, si affrettò a intervenire. «Hai perfettamente ragione, sant'uomo!» disse. «Si vede subito che tu hai la luce. Ma non ci condannare, se siamo ancora nel buio!»

            Il monaco squadrò Bautone, completamente spiazzato da simili umili affermazioni. Quel gigante biondo lo stava forse prendendo in giro? Anch'io non capivo dove volesse arrivare mio fratello. Quel modo di fare non era proprio da lui!

            «Se riconoscete il vostro errore, perché allora esponete questi idoli?» chiese il monaco con fare inquisitore.

            «Tu lo sai, sant'uomo: è perché non abbiamo di che sfamarci! Oh, potessimo fare a meno di venderli... la nostra anima sarebbe tutta un solo canto a Cristo!»

            Con quest'ultima uscita Bautone mi sembrò completamente fuori di testa.

            «Ma a quale Cristo canteresti, tu che sei Goto?» ribatté sospettoso il monaco. «Voi Goti siete tutti eretici!»

            «Sì, è vero, sono nato in terra ariana!» disse Bautone «Ma sappi che la religione dell'Impero io la ammiro, e soprattutto ammiro voi santi uomini che non vi fermate di fronte a nessun ostacolo, animati come siete da implacabile e sacro zelo! Per me voi siete modelli irraggiungibli!»

            «Se quello che dici è vero, perché allora non abbandoni il tuo mondo di superstizioni e non ti volgi anche tu alla vita della verità?»

            «E chi mi sfamerebbe, poi?»

            «Non credi tu alla provvidenza?»

            «Sì... ma... attraverso chi si manifesta per un uomo di Dio, la provvidenza?»

            Il monaco tacque un momento. Non sapeva se rivelargli o no i suoi segreti. Infine si decise. «Matrone e mercanti», disse, «contadini e magistrati... tutti ammirano e sostengono gli uomini di Dio».

            «Oh, come vorrei anch'io vivere così come vivi tu!» esclamò sospirando Bautone.

            Il monaco trasse un profondo sospiro e prese a intonare una fitta cantilena, che era ovviamente il proclama della sua scelta di vita.

            «Sei capace tu di passare notti di digiuno e di preghiera?», disse. «Sei capace di dormire sulla terra nuda? Sei capace di rinunciare alle molli e ricche vesti della città per indossare il solo saio della penitenza?»

            Bautone abbassò la testa e non rispose.

            «Che commediante!» pensai.

            Il monaco sorrise e declamò: «Prendi la tua decisione, amico! Lascia una volta per tutte il mondo e le sue pompe. Tra i dirupi della Sava ci sono molte grotte. Noi monaci viviamo lì. Puoi raggiungerci quando vuoi».

            Detto questo, con fare altero, si allontanò lasciando dietro sé un leggero fetore.

 

            Macrino si precipitò dal mio grosso fratello. «Cosa mai gli sei andato a dire?» chiese sorridendo.

            Ma Bautone era assorto nei suoi pensieri, e anziché rispondergli, gli fece a sua volta una domanda: «Macrino, tu che sai tutto: chi è il capo di questi monaci?»

            «Questi monaci non hanno un capo, ciascuno di loro si fa la sua regola personale e girovaga libero per il mondo. Ogni tanto si ritrovano insieme, è vero. Ma è per caso o perché devono compiere qualche spedizione distruttiva contro simulacri pagani».

            «Splendido!» sussurrò Bautone. «E' più di quanto potessi sperare!»

            «Perché dici così? Cosa ti sta passando per il cervello?»

            Bautone parve leccarsi i baffi, pregustando quello che stava per dire.

            «Statemi a sentire, voi due», disse. «Siete capaci di digiunare, di dormire per terra, e di andare in giro sporchi e vestiti di stracci?»

            «Che domanda! Non è forse quello che facciamo da quando siamo nati?» rispose Macrino. Poi la sua faccia si illuminò di un radioso sorriso. «Ho capito tutto!» esclamò. «Ecco perché ti sei comportato a quel modo con il monaco... Sei un genio!»

            Anch'io avevo capito. E chiesi: «Vuoi che ci facciamo monaci?»

            «Ti piacerebbe, Valrico?» ribatté Bautone.

            «Ma come facciamo a lasciare la religione di nostro padre?»

            «Noi non lasceremo niente, Valrico! Noi semplicemente ci vestiremo da monaci. Io e voi. E i Romani ci rispetteranno. E così potremo arrivare...»

            «Dove?»

            «A Roma, Valrico! E' così che noi arriveremo a Roma!»

 

 

§ 5. Tra i dirupi della Sava

 

            A me e Macrino, l'idea di mascherarci da monaci, piacque subito moltissimo. E ci faceva ridere. Ma Bautone, che invece prendeva la cosa terribilmente sul serio, ci ripeteva che non era un gioco!

Così tutti tre ci mettemmo in cammino verso le caverne dei dintorni di Sciscia, dove abitavano, sparsi qua e là, i santi monaci.

            Ci accolsero bene ma, dopo tanti sorrisi, ci fecero capire a chiare lettere che solo Bautone poteva farsi monaco, niente minorenni tra di loro!

            Per noi questa fu una vera doccia fredda. Ma non ci perdemmo d'animo, e prendemmo ciascuno a sfoderare le proprie arti di convincimento.

            Cominciò Bautone, rantolando che il rifiuto dei monaci ad accogliere me e Macrino era per lui il più gran dolore, perché sentendosi responsabile di noi piccoli, avrebbe dovuto anche lui rinunciare alla vita monastica.

            Io, come mio contributo, non riuscivo a far di meglio che piangere e piangere.

            Ma la mossa vincente fu quella che sferrò Macrino.

            «Venerabili Padri!», gemette. «Non precludeteci la via della perfezione! Che ne sarebbe stato del santo monaco Apollo se, ancora quindicenne, non fosse stato accolto nel deserto da suo fratello... o del santo Ilarione, che all'età di quattordici anni soggiornò per mesi e mesi presso l'abate Antonio... o della stessa Beatissima Vergine Maria», e qui Macrino prese fiato, come per sferrare l'affondo finale, «che all'età di tre anni salì al tempio..?»

            Di fronte a parole così alte, i monaci tacquero con gli occhi spalancati dalla meraviglia. Anch'io e Bautone eravamo rimasti di stucco. Ma il nostro amichetto ci rivolse uno sguardo compiaciuto, che in sostanza voleva dire: «Ve l'aspettavate che fossi capace di tirar fuori un discorsetto così? Sono o no un furbacchione?»

            In effetti dopo il suo intervento la resistenza dei monaci crollò, e non obiettarono più nulla riguardo il desiderio mio e di Macrino di intraprendere la vita di perfezione. Ma a una condizione: noi bambini non ci saremmo mai dovuti far notare. Avremmo abitato in grotte lontane dagli altri monaci e soprattutto avremmo evitato nel modo più assoluto di ridere o scherzare con loro, cosa questa che ci sembrò molto facile, visti i loro musi lunghi.

            Lì per lì ero molto contento. Ma quando poi arrivò la notte e dovetti ficcarmi in una nicchia della roccia per restarci a dormire da solo, senza Bautone vicino che mi proteggesse, mi disperai. Non volevo più andare avanti con quella buffa avventura. Puntavo i piedi e piangevo a dirotto. Bautone mi prese per un braccio e mi guardò fisso negli occhi.

            «Fratellino!» disse. «Non è più tempo per te di fare capricci! Lo so che avrai paura a dormire da solo, ma è venuto il momento che tu diventi uomo! Devi farlo assolutamente!»

            Mi sorrise per incoraggiarmi, e io obbedii. Entrai nella gotta. La mia.

Bautone mi dette un bacetto sulla fronte e se ne andò. E rimasi da solo.

Fu una notte piena di paure, e non feci altro che piangere e piangere. Alla fine capii che tanto era tutto inutile. E verso l'alba mi addormentai.

 

            Dopo qualche tempo avevamo imparato perfettamente a vivere come dei veri monaci. Non era certo una vita comoda, la loro, ma noi ci riuscivamo benissimo. E poi, con la scusa di doverci riunire ogni tanto tutti insieme per recitare le preghiere e leggere le sacre scritture, avevamo finito per impratichirci ben bene di latino.

 

            Finché venne il giorno della nostra prima incursione.

Tutto cominciò all'alba, con un grido che echeggiò tra le nostre grotte. Era il grido di Rasilio, il più zelante dei monaci, che aveva scovato non molto lontano da lì, nascosto tra cespugli e alberelli, un tempietto di contadini ancora intatto. La notizia volò di bocca in bocca, e l'entusiasmo ci fece correre tutti dietro a Rasilio.

            Camminammo a piè veloce salmodiando tra i campi, e ci inoltrammo nel bosco. E arrivammo ad un laghetto su cui galleggiavano placide oche. Sulla riva di fronte... eccolo, il tempietto! Era povero ma grazioso: quattro colonnine corinzie di marmo sorreggevano una cupoletta di scaglie di bronzo, avvolta da rametti d’edera. Dentro, sicuramente, vi si venerava qualche divinità pagana.

            Ma a noi monaci non interessava sapere chi fosse questa divinità. Sapevamo solo che in quel tempietto i contadini andavano a pregare, a invocare buoni raccolti, a chiedere miracoli e grazie e soprattutto... a compiere sacrifici di animali, scannando sulla piccola ara là davanti gli esemplari migliori del loro bestiame.

 

            Saggiammo la solidità delle colonne. Purtroppo erano stabili. Cominciammo a dare qualche calcio, ma non cedevano di un millimetro. Era evidente che dovevamo stare molto attenti a non farci crollare tutto addosso. Qualcuno propose che intanto dessimo fuoco ai rametti idolatri e a tutto ciò che poteva esserci di ligneo, in modo da semplificarci il lavoro. Ma qualcuno obiettò che così facendo avremmo rischiato di provocare un incendio nel bosco! Meglio forse metterci pazientemente a divellere con le mani tutto quello che si poteva...

            Quand'ecco, tra grida e latrati di cane, arrivarono i contadini. Brandivano dei grossi forconi, e ci volle tutta l'autorità di Rasilio per impedir loro di malmenarci. Il vegliardo si mise platealmente con le braccia spalancate in alto e tuonò invocando la protezione del solo Dio, l'unico, l'infinitamente potente. Lo fece con tale convinzione che i poveri villici si impaurirono.

            Non aspettavamo altro.

Rasilio ci indicò un grosso tronco che giaceva lì vicino. La nostra intesa fu immediata e precisa. Senza indugiare un solo attimo corremmo a sollevarlo tutti insieme e, dando fondo a tutte le forze che i nostri digiuni ci avevano lasciato, lo scagliammo a mo' di ariete contro una colonnina.

E venne giù.

Il resto fu un gioco da ragazzi.

 

            Quando il tempietto non fu ridotto che a un cumulo di macerie ci salimmo sopra, ci inginocchiammo e pregammo ad alta voce il nostro Dio.

I contadini cominciarono a piangere, si sentivano senza più la protezione della divinità che da tempo immemorabile loro e i loro antenati avevano pregato in quel luogo.

Io, vedendo la loro disperazione, mi turbai.

Rasilio se ne accorse e cercò di rincuorarmi.

            «Non ti preoccupare», mi sussurrò. «Prima o poi finiranno per imitarci, non hanno scelta. Non possono fare diversamente, se vogliono continuare ad avere Qualcuno a cui affidare se stessi e le proprie speranze!»

 

 

§ 6. In viaggio per Roma

 

            Dopo questa impresa noi monaci ci esaltammo, e ci mettemmo a cercare freneticamente nuovi tempietti da distruggere. Era proprio bello, quel gioco, tanto più che in quelle campagne ce ne erano più di uno, di tempietti, e i contadini erano sempre incerti di fronte alla nostra determinazione, e non opponevano che scomposte e deboli resistenze.

 

            Un bel giorno Bautone disse ai monaci: «Non mi edifico più, a distruggere tempietti di contadini, uno qua e uno là, piccoli e quasi tutti di legno o pietra tenera. È roba da poco: io voglio fare grandi cose. C'è un posto dove i templi sono di marmo e sono enormi. È lì che io voglio andare!»

            I monaci rimasero perplessi di fronte a tanto ardire. Avevano capito subito qual era l'assurda intenzione di Bautone. «Tu vorresti andare a... a... Roma..?»

            «Ebbene sì!» rispose Bautone.

            «È un'impresa impossibile! I templi del'Urbe non sono protetti da poveri contadini come qui, ma da personaggi e senatori molto potenti, che possono disporre di schiavi e di mercenari bene armati. Noi non ti seguiremo!»

            «Pazienza!» esclamò Bautone. «Io e i miei due piccoli compagni, invece, andremo proprio là».

            Saltai di gioia. Mio fratello era proprio intelligente! Ora che avevamo imparato a comportarci come dei veri monaci, potevamo davvero sperare di entrare a Roma. Conciati a quel modo, con l'aria di persone speciali e anche un po' sacre… chi avrebbe osato disturbarci?

            Così passammo per Emona, fino ad arrivare a Tergeste, in Italia. Ma dove trovammo più sorprese fu a Milano.

 

            Milano era una città davvero molto grande e ricca. E soprattutto piena di chiese.

Quando vi entrammo, ci trovammo subito di fronte a un tumulto.

C'era gente che si pestava. Da una parte gridavano: ««Voi siete sporchi eretici! Voi siete ariani, e non avete alcun diritto di esistere!»

            E dall'altra rispondevano: «Perché non possiamo avere anche noi un luogo dove pregare? È solo perché siamo una minoranza? Anche noi crediamo in Dio!»

 

            «Fermi!» gridò mio fratello, e d'istinto si gettò nella mischia per separarli. «Ora basta!» E subito,  certamente per rispetto ai nostri abiti, ma forse anche per l'impressione che sempre faceva quel gigantone di mio fratello, smisero di picchiarsi e si dispersero. Restò a terra solo un uomo, tutto insanguinato.

            Ci precipitammo a soccorrerlo. Appena quello aprì gli occhi e vide che eravamo monaci e si spaventò. Tentò di alzarsi e fuggire, ma non aveva più forze.

            «Non ti agitare!» gli disse Bautone con dolcezza. «Non vogliamo farti del male!»

            «Ma voi siete monaci! E i monaci non aiutano gli ariani!»

            Bautone rimase perplesso.

            «E perché no?» rispose Bautone «Noi ti vogliamo aiutare, chiunque tu sia!»

            L'uomo piantò il suo sguardo indagatore negli occhi azzurri di Bautone e disse: «Si vede proprio che venite da molto lontano!»

            «Questo è vero!» ammise Bautone.

«Goti, eh?» disse l'uomo. E alzò lo sguardo oltre noi.

Ci voltammo.

Eravamo circondati da gente con dei bastoni in mano. Erano gli amici dell'uomo, accorsi in suo aiuto.

            «Non toccate questi amici!» gridò l'uomo con tutta la forza di cui era capace. «Non mi stanno facendo alcun male!»

            Un tipaccio voluminoso e barbuto ci scansò con malagrazia e si chinò su di lui. «Fratello nostro!» disse con un vocione così basso da far accapponare la pelle. «Ora ti portiamo a casa!»

            «Lasciate però che prima io saluti questi amici», chiese l'uomo ferito tendendo il braccio verso di noi. Bautone subito glielo afferrò e gli si avvicinò.

            «Nonostante le botte che ho preso», sussurrò l'uomo nell'orecchio di Bautone, «il cervello mi funziona ancora. Credo di aver capito che razza di monaci voi siate e cosa abbiate in mente...» Al sentire queste parole rabbrividimmo.

            Ma l'uomo continuò, amichevole: «Vi voglio dare un suggerimento. Se mai vi smascherassero, ricordatevi che, nell'Impero, uno a cui il fedele ariano può appellarsi per non finire nelle miniere, esiste. Ed è nientemeno che la sacra persona dell'Imperatore! Proprio così, cari "monaci", il divino Valentiniano è un ariano come noi! E lui vive proprio qui a Milano!»

            Il ferito non riuscì a dirci altro. I suoi amici lo adagiarono su una lettiga e se lo portarono via. Ci sarebbe piaciuto molto seguirlo e andare a conoscere la bella comunità ariana di Milano, ma Bautone ci ricordò che la nostra meta era Roma. Se ci fossimo rivelati apertamente come ariani, il nostro viaggio sarebbe finito lì, a Milano. E invece solo a Roma avremmo potuto considerarci arrivati.

 

            Così riprendemmo il cammino.

            E dopo meno di un mese giungemmo finalmente alle pendici del Gianicolo e salimmo alla gigantesca porta Aurelia. L'oltrepassammo mescolati a commercianti, lettighe e cavalieri. E davanti a noi si dispiegò un panorama inimmaginabile: l'Urbe, l'Eterna, la Padrona del Mondo..! Non avevo mai visto tante costruzioni di marmo e di bronzo dorato messe insieme, né una tale miriade di statue sopra ville, circhi, templi e terme. Il sole che tramontava illuminava la città di luce rossastra e i riflessi davano una sensazione di bellezza e di mistero quasi palpabile. Non potemmo non fermarci a un muretto a contemplarla, storditi da tanto splendore.

            Sotto di noi il Tevere serpeggiava brillante come l'oro, e sulla sua sponda sinistra, dietro nugoli di barche e baracche, si innalzavano, possenti e maestose, le mura e le torri della cinta Aureliana, pullulanti di sentinelle.

 

 

§ 7. L'Urbe

 

Quando, dopo non meno di un'ora, smaltimmo l'ebbrezza di quel primo impatto, ci avventurammo dentro la città. Eravamo finalmente giunti alla meta!

            Ed ora, che avremmo fatto?

            Purtroppo non avemmo molto tempo per chiedercelo, perché gli eventi precipitarono. Fu Bautone a tradirci. Sì, proprio lui. E tutto avvenne all'improvviso.

            Io lo vidi sbiancare in faccia, con lo sguardo paralizzato verso un punto lontano.

            Mi volsi, e vidi una ragazza molto carina e dall'aspetto simpatico, con lunghi riccioli rossi che spuntavano fuori dal cappuccio che le copriva in parte la testa. Il suo viso era minuto e affascinante, e Bautone era rimasto a fissarla a bocca aperta.

            La ragazza si era accorta di lui, che le doveva apparire decisamente singolare, atletico come era, sotto a una tunica nera di monaco che evidenziava ancor di più la sua folta capigliatura bionda e i suoi occhi azzurri.

            La ragazza abbozzò un sorriso, ma subito, come per difendersi da qualcosa di proibito, si coprì il viso con il cappuccio e fuggì via nella folla.

            Bautone se ne stava imbambolato senza sapere che pesci prendere.

            Ovviamente la sua confusione doveva essere totale, perché non si era accorto che tutti i movimenti suoi e della ragazza erano stati seguiti momento per momento dallo sguardo severo e penetrante di un uomo.

            «Tu!» gridò quell'uomo.

            Ci rivoltammo impauriti. Girolamo era là, in piedi, fermo. Aveva lasciato che la lettiga che lui stava accompagnando a piedi andasse pure avanti con il suo nobile passeggero. Ora aveva una questione più importante da sbrigare, che non fare da scorta a qualcuno.

            «Tu!» ripeté puntando il dito contro Bautone.

            Bautone diventò rosso.

            «Tu non sei un monaco!» gridò.

            Intanto i passanti si fermavano incuriositi, e cominciavano a formare una piccola folla attorno a noi.

            Bautone si sentì scoperto.

Alzò lo sguardo a Girolamo.

E vide un uomo magro, bruno, con barba e capelli corti e curati, indossava anche lui la veste scura del monaco, ma senza nulla di trasandato per farsi notare. D'altronde non ne avrebbe avuto bisogno: il suo sguardo gli bastava. Davanti a uno sguardo così non si poteva mentire.

 

            Bautone gli cadde in ginocchio davanti: «Io non sono un malvagio», piagnucolò. «Santo uomo, non fare del male a me e ai miei piccoli amici!»

            Di fronte a una confessione così immediata Girolamo trasalì. Smascherarci gli era stato istintivo. Ora però si rendeva conto che, se fossimo finiti davanti al magistrato, avremmo fatto una brutta fine!

            Il suo attimo di titubanza durò solo una frazione di secondo. Perché piombarono su di noi, lesti come cavallette, dei vigili che ci afferrarono con violenza. Bautone, sentendosi prendere e vedendo che tutto ci crollava addosso improvvisamente, si ricordò delle parole del milanese che avevamo tentato di soccorrere, e prese a gridare: «Io mi appello all'Imperatore Valentiniano! Io mi appello all'Imperatore Valentiniano!»

            «Perché dici così?» gli chiese Girolamo.

            «Perché lui è ariano come noi!»

            Non poteva dare risposta peggiore. Girolamo si ritrasse come se avesse ricevuto una cattiva notizia. E la folla emise all'unisono un'esclamazione di disprezzo.

            «Dunque sotto queste vesti penitenziali», gracchiò uno dei vigili con voce sarcastica, «si nascondono degli immigrati Goti!»

            «Vi prego, lasciateci andare!» supplicò accorato Bautone. «Non facciamo male a nessuno!»

            Per fare anche noi la nostra parte, io e Macrino ci mettemmo a piangere sonoramente, tanto che ci fu un momento in cui sia la folla che i vigili sembrarono commuoversi.

            Bautone ripeté: «Vi prego, concedetemi di parlare all'Imperatore!»

            «Ma chi mai pretendi di essere, tu che fai una simile richiesta?» domandò il capo dei vigili sorpreso e indignato. «Credi forse che l'Imperatore sia a tua disposizione, magari qui, dietro l'angolo?»

 «Lo so bene che l'Imperatore non è qui! È a Milano!» ribatté Bautone «Dove dovrebbe stare altrimenti?»

            La folla ammutolì, stupita e curiosa di vedere dove il gigante biondo sarebbe andato a parare.

            Bautone si guardò intorno e, di fronte al silenzio generale, che pareva quasi un giudizio nei suoi confronti, per mostrarsi bene informato continuò: «Perché, non è forse Milano, la capitale dell'Impero?»

            Dalla folla si levò un mugolio di rabbiosa disapprovazione. Unanime. Che presto divenne come il rantolo di una bestia ferita a morte. Ma con che ingenuità aveva potuto Bautone rimarcare, dentro le mura della Città Eterna, che ora la capitale dell'Impero non era più Roma ma Milano? Roba da matti. Tutta la commozione che con tanta fatica eravamo riusciti a suscitare nella folla, svanì di colpo! I Romani, offesi, presero a gridare contro di noi.

            Il capo dei vigili ruggì: «Miserabili! Siete così ignoranti che non sapete nemmeno quanto sia sacro il suolo che state calpestando! Roma è e sarà sempre il capo e l'anima del mondo intero! E' per difendere Roma, che gli Imperatori vigilano vicino ai confini!»

            Dopo queste sommarie spiegazioni i vigili non ci rivolsero più la parola. Ci presero di peso e ci trascinarono di fronte al prefetto dell'Urbe. Quello non ci guardò nemmeno in faccia, si limitò ad ascoltare le parole che gli disse sottovoce il capo dei vigili mentre ci indicava, e annuì. Così, la sera stessa del giorno in cui eravamo entrati in Roma, trovammo alloggio: il carcere Mamertino. L'indomani saremmo stati venduti come schiavi.

 

 

§ 8 . La casa di Dalia

 

            La matrona che, con la curiosità di chi sceglie una merce, venne a vederci nelle nostre celle, portava un'acconciatura molto elaborata ed emanava un forte profumo di muschio. Al collo le pendevano ricchi monili, e la sua lunga veste frusciante era di un tessuto introvabile, che seppi poi che si chiamava seta. Io la guardavo da dietro le sbarre con gli occhi sgranati.

            A un certo punto il mio sguardo si incontrò con il suo. Percepii il suo interesse per me. Infatti mi sorrise benevola ed esclamò delle parole che non capii bene, tanto erano biascicate e tronche. Ma mi parve però di capirne una, la parola "paffuto".

            Fatto sta che quella matrona comprò me, Bautone e Macrino tutti in blocco. Quando lasciammo il carcere, gli altri nostri compagni di sventura ci dissero che quella matrona era Dalia, una delle donne più ricche di Roma.

            Dalia ci prese nella sua villa sul Viminale e ci consegnò ai suoi giardinieri. Ma mentre Bautone e Macrino tutti i giorni dovevano servire i giardinieri portando loro gli attrezzi e facendo le pulizie, io venivo spesso invitato da Dalia nelle sue lussuose stanze. Mi guardava con un amore particolare, mi coccolava, mi faceva mangiare ghiri arrosto e leccornie ricercatissime, e mi faceva giocare con un suo nipotino, Reburro, un po' più piccolo di me, ma molto prepotente.

            Reburro possedeva tutta una serie di giocattoli, uno più bello dell'altro. Appena avevo visto le sue lettere d'alfabeto in avorio, con cui si potevano fare costruzioni che poi erano parole e frasi, ero rimasto stupefatto. Poi mi aveva mostrato i suoi animaletti di legno e bronzo, con le gambe snodate, che camminavano tenuti da fili... ma quando infine mi aveva messo tra le mani uno dei suoi soldatini, con tanto di vestiti e armi in miniatura, ero rimasto letteralmente a bocca aperta. E avevo subito pensato quanto sarebbero piaciuti a Macrino, se li avesse visti.

            A Reburro piaceva la mia compagnia, ma era tremendamente intrattabile e capriccioso. Quando non riusciva a far muovere un animaletto, lo rompeva montandoci su o smontandolo pezzo per pezzo. Guai poi a contrastarlo nelle finte battaglie! Se non vinceva lui, oltre a farmi il muso, mi tirava appresso tutti i suoi soldatini. E non solo a me, ma a chiunque passasse lì vicino! Per me era un gran dispiacere veder distruggere dei giocattoli così belli.

            Pensavo continuamente a Macrino, che in quanto a salute stava sempre peggio. Mentre io giocavo nel caldo e nel lusso delle stanze di Dalia, lui, con Bautone, stava all'aperto, a prendersi la pioggia e a sporcarsi di terra, a trascinare secchi e attrezzi e a graffiarsi a forza di maneggiare sterpi. E a sera, nella catapecchia dove ci avevano messo a dormire, mentre io raccontavo le meraviglie di ciò che avevo visto o mangiato nella giornata appena trascorsa, lui tossiva, sempre più gracile e malaticcio.

            A un certo punto Bautone mi disse che secondo lui Dalia mi aveva preso in grandissima simpatia, e che non era impossibile che prima o poi pensasse di adottarmi.

            «Almeno intanto tu, Valrico», diceva, «ti sistemeresti e saresti finalmente un cittadino romano!»

Dicendo così Bautone sorrideva. Ma a me non piaceva una fortuna che non avrei potuto condividere con lui e con Macrino.

            «Cogli la tua occasione quando passa!» mi incoraggiava Bautone. «Per me e Macrino stai certo che prima o poi verrà anche il nostro momento».

            Così io continuavo a giocare con Reburro e con i suoi capricci, sotto lo sguardo incantato di Dalia. Finché un giorno, visto il disprezzo e la disattenzione che Reburro mostrava verso i suoi giocattoli, decisi di prenderne uno e di portarlo a Macrino. Non fosse altro per fargli vedere dal vivo quali erano le meraviglie di cui raccontavo.

            Nascosi sotto la tunica un meraviglioso soldatino – era un centurione, vestito di tutto punto con tanto di armatura, elmo e scudo - e lo portai via. Quando lo vide, Macrino non credeva ai suoi occhi. Quella notte non dormimmo, tanta era la voglia di muovere, spogliare e rivestire quel fantoccio.

            Ma al mattino ci risvegliò una brutta sorpresa. Reburro, che non badava mai alle sue cose, stavolta si era accorto della mancanza del soldatino e si era messo a strillare. Non ci era voluto molto perché i sospetti ricadessero su di me.

E così il giardiniere spalancò la porta della catapecchia dove alloggiavamo e, con un rapido sguardo, individuò la refurtiva. Strappò il soldatino dalle mani di Macrino, che ancora lo stringeva sé, e ci portò tutti e tre al cospetto della matrona.

            «Valrico!» disse Dalia usando un tono che non le avevo mai sentito «Come è stato possibile che tu abbia approfittato della mia benevolenza per commettere un furto?»

            «Non volevo assolutamente rubare, signora!» mi affrettai a giustificarmi piagnucolando. «Volevo solo far vedere questo giocattolo al mio amichetto!»

            «E perché non hai pensato di chiederlo?»

            Macrino, dietro me, cominciò a tossire. Faceva sempre così quando era agitato.

            Io, dal canto mio, non riuscivo a spiccicare nessuna risposta. Diventai rosso e basta. E abbassai lo sguardo.

            Vedendomi così imbarazzato e contrito, Dalia si impietosì e sorrise, comprensiva.

            «Non devi più comportarti così, da selvaggio traditore!» disse per iniziare un’amorevole ramanzina. Ma quelle parole, sia pure concilianti, non mi piacquero affatto. Né a me né a Bautone.           

            «Tu devi diventare un bravo bambino, educato nelle usanze civili di Roma... come potrò, altrimenti, adottarti e considerarti come un mio figlioletto?»

            Dalia non aveva mai parlato così esplicitamente delle sue intenzioni. In quel momento aveva appena decretato la mia fortuna.

            Ma Macrino riprese a tossire.

            Lo guardai. Era fragile e malato. Io invece mi sentivo bene, ben nutrito e fortunato. Quel confronto con il mio più grande amico mi creava un disagio insopportabile.

            «Signora!» dissi d'istinto. «Non prendere me, ma prendi Macrino. Lui ha più bisogno di me!»

            Macrino e Bautone si voltarono verso di me con aria stupita.

            La matrona, invece, rimase come pietrificata. Si era sentita violentemente offesa.

            «Ma cosa stai dicendo?» gridò infine. «Cosa ti sei messo in testa, piccolo Goto impenitente? Secondo te la mia casa è una stalla piena di biada, dove tu puoi chiamare chiunque ad approfittarne? Ma bravo Valrico, ti sei finalmente svelato per quello che sei. La tua razza è sempre la stessa: barbari latranti. E sciocca io, che mi ero illusa di poterti redimere! Ma voi Goti siete tutti una stessa cricca, il tradimento è la vostra natura, che prima o poi doveva per forza spuntar fuori. Bell'errore stavo per fare, adottandoti. Non saresti mai stato mio, ora me ne accorgo!»

            Quelle parole così piene d'ira ci fecero rabbrividire. E crollò in un baleno ogni nostra speranza di riscatto.

Pur tuttavia, sentire che l'intenzione di Dalia nei miei confronti era stata che io divenissi "suo", mi diede un forte senso di liberazione.

           

            Dalia decise di sbarazzarsi quanto prima di noi. E così tutti e tre fummo rimessi in vendita.

 

 

§ 9. Nel foro Boario

 

            Fummo consegnati a un mercante di schiavi del foro Boario, un personaggio ambiguo, con la faccia sempre pittata di trucco. Si faceva chiamare Lussilla. Oltre agli schiavi vendeva mucche, e non faceva gran distinzione tra gli uni e le altre, custodendoli spesso nelle stesse gabbie.

            Appena vide Bautone restò bene impressionato della sua prestanza, e si convinse subito che avrebbe potuto ricavare molti più soldi offrendolo come servo di palazzo che non come lavorante di campagna. Certo, in questo modo non lo avrebbe venduto in quattro e quattr'otto, ma Lussilla era disposto a pazientare pur di fare un buon affare.

            Così ci mise al collo un fastidiosissimo collare di metallo che faceva di noi capi di bestiame che non potevano scappare, ci incatenò e ci espose nel Foro.

 

            Passava davanti a noi una marea di curiosi che ci guardava, ci toccava e faceva apprezzamenti.

Finché, in un giorno in cui aveva cominciato a cadere la pioggia...

 

            La riconobbi subito, era la ragazza dai riccioli rossi che Bautone aveva adocchiato appena messo piede a Roma, e per la quale si era fatto scoprire. Era bellissima, come sempre. La scortavano due nerboruti servitori che tenevano sopra di lei un grande ombrello colorato per ripararla dalla pioggia.

La ragazza si accorse di noi e si avvicinò. Quando Bautone se la vide davanti, barcollò.

            «Qual è il tuo nome?» chiese la ragazza a mio fratello.

            «Bautone. E tu?»

            La ragazza si stupì dell'ardita contro domanda, ma rispose dolcemente: «Io mi chiamo Bissula».

            «Non è un nome romano. Sei barbara anche tu?»

            «Sono nata nella Germania».

            «Ed ora sei cittadina romana?»  

            A questa domanda la ragazza scrutò con interesse e commiserazione il volto di Bautone, e parve indovinare in un baleno tutta la sua storia, le sue aspirazioni e i suoi dolori.

            «Sì» ammise, con uno sguardo di tenerezza. «Ma non posso liberarti!» riprese lei.

            «Non te l'ho chiesto!»

La pioggia cominciò a cadere con maggior violenza, costringendo i giovani a gridare per potersi capire.

            «Se io ti comprassi», disse lei, «il mio padrone si arrabbierebbe, e potrebbe fare del male a te e a me».

            «Il tuo padrone? È così che chiami tuo marito?»                    

            «Io non ho marito».

            «Allora come puoi avere un padrone? Sei forse una serva?»

La ragazza abbassò gli occhi.

           

Io guardavo la scena. Mi sembrava di vedere il rossore dei loro volti e di sentire i battiti dei loro cuori.

 

            Bautone, impulsivo e un po' matto come sempre, ne tirò fuori una delle sue: «Io ti libererò dal tuo padrone!» dichiarò spavaldamente.

            «Cosa..? Tu, che sei in catene?»

            «Sì!» ribatté lui con assurda cocciutaggine.

            «Ma tu... non puoi nemmeno immaginare chi sia il mio padrone! Nessuno, se non l'Imperatore stesso, potrebbe liberarmi da lui».

            «A meno che tu non avessi un marito!»

            Lei sorrise come davanti a un bambino ingenuo e gli chiese: «Lo pensi davvero? E chi?»

            Bautone la fissò.

            Lei cercò di leggere nei suoi pensieri e, sorridendo, per gioco azzardò: «Forse... tu?»

            Bautone chinò la testa. Si era finalmente reso conto che l'orgoglio lo aveva condotto troppo in là.

            Ma Bissula, stranamente, non lo derise. «Si vede proprio», gli disse con tono triste, «che non sai ancora che, se un barbaro sposa una cittadina romana, viene messo a morte!»

            La pioggia non cessava di cadere. E loro si guardavano senza più dirsi una parola. Finché ad interrompere l'idillio non arrivò Lussilla che, scusandosi con la ragazza, diede uno strattone alla catena che stringeva al collo Bautone. C'era un probabile acquirente che voleva vederlo da vicino.

            «Io diverrò cittadino romano!» gridò Bautone mentre il mercante lo tirava via. E prima di essere costretto a voltarsi del tutto, lanciò alla ragazza l'ultima promessa: «E verrò a prenderti!»

            La ragazza tacque. Erano parole talmente assurde che non meritavano neanche di esser prese in considerazione. Quel gigante doveva essere proprio pazzo.

            Ma io, che ero rimasto vicino a lei, le sentii sussurrare parole altrettanto assurde. Lei disse: «E io ti aspetterò!»

 

 

            Nei giorni che seguirono il tempo andò peggiorando sempre più, Non smetteva mai di piovere. Per noi, schiavi in vendita, stare esposti all’aperto da mane a sera era una vera tortura. Bautone sopportava tutto senza problemi, e anch'io ce la facevo abbastanza. Ma Macrino no. Si era ammalato gravemente, tossiva in continuazione e aveva sempre la febbre.

            Lussilla era infastidito. Nessuno ovviamente si mostrava intenzionato a comprare un piccolo ammalato come Macrino, e lui non intendeva spendere un asse per curarlo.

            Pur tuttavia una sera, incredibilmente, si avvicinò al nostro amico con aria pietosa e gli offrì una bevanda calda. Io e Bautone ci guardammo stupiti. C'era dunque un fondo di umanità anche in quel repellente mercante?

            Macrino, tremante e bagnato, bevve avidamente quella tazza fumante, e per un momento parve ristorato e riscaldato. Ma quella notte stessa, tra spasimi e lamenti, morì tra le nostre braccia.

            Quando il mattino dopo arrivarono gli uomini che lo dovevano portare all'inceneritore, io e Bautone eravamo disperati. Vedere quelle piccole ossa buttate sul carro e coperte con uno straccio fu uno spettacolo terribile!

            Lussilla però non si mostrò per nulla dispiaciuto. E ci portò di nuovo in piazza, come se niente fosse.

Bautone aveva lo sguardo assente, come se la sua mente fosse immersa in chissà quali cupi ragionamenti. Quando faceva così io avevo paura.

            E avevo ragione di temere.

Perché a un certo punto, per mostrarlo a un cliente, Lussilla gli diede un calcio.

Bautone non si mosse.

Allora il mercante gli gridò: «Alzati, gigante, e fatti vedere. Tu hai muscoli da vendere, sei sano e robusto, e non basta certo una notte di freddo, a farti morire...»

           

A queste parole Bautone avvampò d'ira, e si lanciò contro il mercante per afferrargli la gola. Ma le catene, saldamente fissate alla pedana di legno, lo trattennero, cosicché le sue braccia restarono ad annaspare inutilmente nell’aria.

            Vedendo mio fratello reagire in quel mondo, rimasi terrorizzato. Non l'avevo mai visto perdere completamente il lume della ragione. E in preda a un batticuore che non sapevo più controllare, sentii la mia mente popolarsi improvvisamente di incubi, fantasmi e sospetti. Era poi vero quello che andavo sostenendo da sempre, e cioè che Bautone era un uomo incapace di uccidere? Vedendolo annaspare alla ricerca della gola di Lussilla non ne ero più sicuro. Forse al fondo delle dicerie che circolavano nel villaggio sul fiume Tisza, c'era qualcosa di vero?

            «Bastardo di un mercante!» urlava Bautone in lingua gota. «Bastava solo che tu lo abbandonassi come schiavo malato, e sarebbe stato libero! Ma questo era troppo disturbo, per te! Più facile togliertelo di mezzo, più facile avvelenarlo! Vigliacco, io ti ucciderò!»

            Il mercante sapeva bene di essere fuori dalla portata di Bautone, ma questo non bastava a tranquillizzarlo. Il suo volto era rosso paonazzo  e ansimava per lo spavento.

            La furia di mio fratello era tale che pareva capace di spezzare le catene. Intervennero allora dei vigili che presero a bastonarlo.

Ma Bautone non si acquietava.

E così continuarono a percuoterlo con ferocia fino a farlo cadere. E quando Bautone fu a terra, ci montarono sopra con i piedi.

 

            Si udì un grido.

Una voce femminile.

Straziata.

«Basta! Basta così, basta, per amor di Dio. Non vedete che non reagisce nemmeno più? L'avete ucciso!»

            Era Bissula.

I vigili si volsero alla donna, compresero subito chi fosse, e con timoroso rispetto smisero di picchiare mio fratello.

 

            Per grazia di Dio non era morto.

 

            Il mercante ci rinchiuse in una delle gabbie di sua proprietà costruite all'interno di un capannone della riva destra del Tevere, come fossimo una merce tra immagazzinare. Niente più esposizione al mercato, per noi. Ci avrebbe svenduto in tutta fretta, il giorno dopo, a chiunque avesse avuto bisogno di braccia per le campagne o per le miniere.

            Ci aveva incatenato molto saldamente.

Vicino a noi non c'era più alcun essere umano, ma solo altre gabbie che contenevano derrate e animali.

Inutile per noi chiedere a chicchessia un qualche soccorso, o anche solo un goccio d'acqua.

Io piangevo e tentavo di carezzare, con una certa impressione, le ferite di Bautone.

 

            Quand'ecco un rumore di passi.

            Davanti a noi si parò un uomo. Indossava una bella tunica ricamata.

            Si rivolse a Bautone. «Ti ho visto, prima, in piazza», disse, «Deve essere ben profondo il tuo odio verso quello sporco mercante!»

            «Chi sei?» gli chiese mio fratello.

            «Il mio nome non importa!» rispose. «Sono solo venuto a portarti questo!» e gli porse, attraverso le sbarre, uno strano punteruolo ricurvo. Bautone lo prese, senza capire lì per lì a cosa potesse servire.

            «Con questo puoi fare molte cose» spiegò l'uomo. «Puoi liberarti dalle catene e puoi anche...»

            «Uccidere?»

            «Sì, puoi uccidere quello sporco mercante!»

            «E perché mi vuoi aiutare in questo?»

            «Perché lui dieci anni fa ha ucciso la donna che amavo. L'ha fatta morire esattamente come ha fatto morire il vostro piccolo amico, con l'inganno!»

            Bautone guardò l'uomo negli occhi.

            «Capisco» disse. «Tu devi essere un liberto che un tempo è stato merce di Lussilla. Tu e la tua donna un tempo eravate in vendita…»

            «Uccidi Lussilla, e io ti riscatterò!»

            «Cosa?»

            «Hai sentito bene! Se Lussilla morirà, io farò in modo che un cittadino romano ti compri e poi ti affranchi. Te e questo tuo fratellino. E così diverrete a pieno titolo cittadini romani!»

            Bautone era rimasto senza parole.

            Si udì un rumore in lontananza.

            L’uomo si guardò intorno con circospezione.

«Ora vado» disse sottovoce. «Mi raccomando, Bautone, guadagnati la tua libertà!»

E si dileguò.

 

 

§ 10. La piena

 

Fuori non smetteva più di piovere.

Sotto alle grandi arcate del capannone, le tante gabbie dei mercanti erano certamente al riparo dalla pioggia. Ma non al riparo del fiume, il cui livello cominciava inesorabilmente ad innalzarsi. Alle nostre narici arrivava sempre più asfissiante il tanfo delle cloache. Finché non sentimmo, con stupore e terrore, che i nostri piedi erano immersi nell'acqua. Non ci mettemmo molto a capire che l'alluvione era iniziata. Era la nostra fine!

            Le bestie erano agitatissime, e i magazzinieri in continuazione entravano e uscivano dai capannoni, affannati, a controllare le merci e le derrate.

            Fuori la pioggia continuava ad imperversare. E il Tevere saliva, ci era ormai arrivato alle ginocchia.

            Da quando il misterioso liberto ci aveva consegnato il punteruolo, Bautone non aveva smesso un istante di lavorare ai bracciali che ci incatenavano. Per prima cosa era riuscito a scardinare una cerniera. Impadronitosi della tecnica, poi non gli era stato difficile aprire anche le altre morse. Così non eravamo più incatenati, e potevamo muoverci liberamente.

            Certo nessuno aveva fatto caso a noi. Nei corridoi era tutto un andirivieni sempre più caotico di commercianti e servi che tentavano disperatamente di portare in salvo qualcosa.

            E il fiume continuava a salire con una velocità incredibile. In poco tempo era già arrivato alle nostre cinture.

            Quand'ecco la voce stridula di Lussilla rimbombare lungo il capannone. Il mercante era sceso di persona per salvare le sue gabbie e i suoi tesori. Strillava come un ossesso, e impartiva qua e là ordini che i servi non sapevano come eseguire.

Il fiume infatti stava allagando tutto, e restare anche solo un istante di più nei magazzini significava rischiare di grosso.

Sulla superficie dell'acqua galleggiavano serpenti morti, topi ed immondizie di ogni genere.

            Lussilla tirò fuori dalle sue gabbie un paio di buoi e riuscì a farli condurre in salvo. Ma tutto il resto era ormai perduto. Fece capolino nella nicchia dove ci teneva ingabbiati e ci guardò.

            Con odio.

            «Salverò le mie vacche, ma non voi!» disse.

            Stava ancora con il suo ceffo crudele rivoltato verso di noi in una stupida espressione di cattiveria, quando un'ondata d'acqua improvvisa, proveniente da chissà dove, irruppe nel capannone trascinando con sé flutti di ogni tipo. Un grosso tronco ruotò sotto la spinta violenta delle acque e rovinò proprio sulla testa di Lussilla. Il mercante svenne all'istante e finì in acqua con la faccia all'ingiù.

            Bautone comprese che non c'era un istante da perdere. Si immerse sott'acqua e, lavorando febbrilmente con il punteruolo, riuscì a divellere il cancello.

            Appena in tempo. L'acqua era ormai arrivata alle nostre teste. Nuotammo con tutte le forze che ci erano rimaste e finalmente sbucammo all'aperto, ritrovandoci sotto un cielo plumbeo, in balia di acque che coprivano tutto, baracche, case e templi. Il fiume e le rive erano scomparse, la città era ormai tutta solo un immenso lago dal quale spuntavano qui e là tetti, cupole e pinnacoli.

 

            Bautone con una mano stringeva me e con l'altra faceva di tutto per aggrapparsi ai rami di un albero che affioravano dall'acqua come un cespuglio.

            Quando ci riuscì, con una poderosa bracciata riuscì a mettermi in salvo sul tetto del capannone, e poi ci montò sopra anche lui.

Il punteruolo lo aveva sempre con sé, infilato nella tunica.

            Nella pioggia che continuava a cadere senza tregua, intravedemmo delle barche.

            «Tu, grande e grosso, sali su e vieni a darci una mano!» gridò una voce. «C'è della gente da portare in salvo!»

            Impulsivo e generoso come sempre, Bautone si alzò sul tetto e, facendo attenzione a non perdere l'equilibrio, saltò sulla barca. E io dietro a lui.

            A fianco a servi e popolani ci prodigammo per tirare su un bel po' di gente che annaspava nell'acqua. Era bello. In quell’attività fianco a fianco con altri, non eravamo più considerati schiavi, ma semplicemente uomini che aiutavano altri uomini. E vedere le facce piene di gratitudine di coloro che aiutavamo ci faceva sentire utili e importanti.

            Tutta la nostra attività, comunque, continuava a svolgersi intorno al tetto del capannone di Lussilla. Fino a che, a un certo punto, Bautone si mise a fissarlo.

E io mi spaventai.

«Remate verso lì!», gridò Bautone agli uomini della barca, indicando il capannone. «Lì sotto certamente c'è qualcuno che è rimasto intrappolato!»

            «Ma sei pazzo ad andare lì sotto?» gli urlarono dietro.

            «Forse sì, ma voglio andare a vedere!» rispose mio fratello.

            Io solo sapevo cosa aveva in testa. Voleva trovare il cadavere di Lussilla. A tutti i costi. Era essenziale, non c'era cosa più importante, solo così infatti avrebbe potuto dimostrare al misterioso liberto di averlo ucciso, e solo così avremmo potuto ottenere la cittadinanza romana. E solo così lui... avrebbe potuto anche… chissà… Bissula…! Dipendeva tutto da quel cadavere.

E Bautone si tuffò in acqua.

Lo vidi immergersi e sparire dentro al capannone.

La pioggia continuava ad inzupparmi tutto.

Gli uomini della barca, per stima di quel gigante che si era mostrato così forte e generoso, rispettavano la sua iniziativa e attendevano buoni buoni.

 

            Ed ecco, mi parve di sentire degli strani suoni provenire dal capannone.

Mi sforzai di ascoltare. Ma non potevo distinguere quei suoni, con tutto il rumore che faceva la pioggia!

Mi sforzai allora con tutta l'attenzione di cui ero capace.

Mi sforzai a tal punto che, ecco, mi sembrò di capire molto bene… delle parole! Come se io non fossi fuori dal capannone, ma dentro!

Era l’acida voce di Lussilla che strillava: «Sporco Goto traditore! Cosa aspetti a liberarmi?»

            Uno sciacquio. E di nuovo: «Animale! Usa le inutili braccia che ti ha fatto quella donnaccia di tua madre!»

 

            Non so cosa mi successe in quel momento. So solo che il mondo che mi circondava si annebbiò, e io cominciai a vedere le cose non più con i miei occhi miei, ma con gli occhi stessi di Bautone. E sentii in petto battere il suo cuore.

            Percepivo il suo odio. Stringevo con lui il punteruolo nella mano e nuotavo con lui verso la testa bagnata di Lussilla che, imprigionato tra la superficie dell'acqua e l'arcata che sosteneva il tetto del capannone, gridava come un ossesso preso dal panico più disperato. Ma più il repellente mercante gridava le sue minacce, più mi sentivo sicuro di quello che stavo per fare. C'era una strana gioia che mi saliva dalle viscere fino alla gola.

            E procedevo verso di lui col mio punteruolo in mano. La mia libertà si avvicinava.

           

«Sbrigati, schiavo!» strillava Lussilla. «Appena mi avrai tirato fuori di qui dovrai implorarmi di non farti crocifiggere!»

            Lussilla era fuori di sé, ma non io, Bautone, che, calmo e possente, mi avvicinavo sempre più a lui.

 

            Eccolo a portata di mano, il mercante assassino!

Allungo un braccio verso di lui.

Lui continua a sbraitare. A quanto pare non basta il pericolo di morire perché si pieghi la sua arroganza, non c'è umiltà nel suo cuore assassino. Neanche adesso. Continua ad illudersi che tutto gli sia dovuto.

Non sa che le cose stanno in tutt’altro modo: c'è un patto fra me e il liberto che mi procurerà la cittadinanza romana. La cittadinanza romana è la cosa più importante. Per me significa anche l'amore.

            Tu, vile effeminato, stai gridando ordini e insulti che io nemmeno ascolto.

Ora ti prendo la testa per i capelli.

Ora alzo sulla tua gola il mio punteruolo.

Ora sto per vendicare il liberto, Macrino, me stesso.

Ora sto per conquistare la mia libertà.

 

            «Io lo so, che tu non l'hai ammazzato!» grido con tutta la forza che ho.

Gli uomini della barca mi guardano stupiti. Sto gridando a mio fratello, che so che ascolta!.

 

            Nella mente, non so come, mi si spalanca nitida l'immagine di una selva.

So di essere sulla riva del fiume Tisza.

C'è un uomo dall'aspetto malvagio che maltratta il suo cavallo. Lo sta facendo sanguinare.

            «Non lo fare!» grido.

            «Io faccio quello che voglio, la bestia è mia!» risponde arrogante l'uomo.

            «Nessuna bestia puoi dirla tua!»

            «Perché, me la vuoi rubare?»

            «Io voglio solo che tu non la maltratti!»

            «Scansati e lasciami fare quello che voglio!»

            «No!»

            Lite.

            Un pugno terribile sul mento dell'uomo, e la sua testa che si storce.

            L'uomo cade a terra.

            Sangue.

 

            «No! Non volevo! E' stato un incidente!» grida la voce di Bautone nella mia mente.

            «Lo so» gli rispondo con il cuore in subbuglio, «l'ho sempre saputo che tu non sei un assassino!»

            «No, io non sono un assassino!» mi risponde imperativo mio fratello.

            «E allora... perché, ora invece stai per trapassale la gola di Lussilla?»

            «Lo sai benissimo, il perché! Uno come Lussilla non può continuare a vivere, ci farebbe del male!»

            «Ma tu… il male, tu non lo fare!»

            «Stavolta è diverso, piccolo. Lo devo fare, e lo devo fare anche per te».

            «Se è per me, non lo fare. Io non voglio che tu uccida!»

            «Ma solo in questo modo potremo avere la cittadinanza! Ed è quella, la cosa più importante!»

            «No, non è quella, la cosa più importante!»

            «Ma cosa dici?»

            «Dico che mi fai paura, fratello, una paura terribile. Quando uscirai dalla nicchia con il cadavere di Lussilla, io avrò per sempre il terrore di te!»

            «Ma allora tutte le nostre fatiche, tutto il nostro viaggio?»

           

            Mi misi a piangere e singhiozzare. Uno degli uomini della barca mi si avvicinò e mi strinse a sé. «Povero bambino», disse, «è tutto troppo duro per te!»

 

            Altre barche intanto passavano vicino alla nostra. Dalla riva arrivavano le grida dei vigili che stavano prendendo in mano la situazione e impartivano ordini.

            Io non distoglievo nemmeno per un attimo lo sguardo dall'ingresso del capannone da dove sarebbe sbucato da un momento all'altro Bautone.

 

            E sbucò.

Tirando dietro sé un grosso peso morto.

Viscido.

Lussilla.

            Gli uomini lo aiutarono ad issarlo sulla barca.

            Lo rovesciarono con la faccia all'insù.

            Io non volevo guardare.

            Avevo paura di sapere.

 

            Un rantolo.

            Lussilla respirava ancora!

.

            Aprì gli occhi e cominciò a insultarci.

           

            Mi girai di scatto verso Bautone. Ero felice!. Lui sorrideva. Né a me né a lui importava nel modo più assoluto quali cattiverie stessero ora uscendo dalla bocca del mercante. Che ci minacciasse pure, ci facesse pure del male, tanto lo sapevamo già da prima in che guaio ci saremmo cacciati.      

            Bautone scosse la testa. «Siamo stati pazzi, a salvarlo!» mi disse.

            «Sì, proprio pazzi!» gli feci eco io.

            Il suo sguardo assunse un'aria stranamente divertita.

            E io scoppiai a ridere. «Siamo proprio...» ripresi singhiozzando con gli occhi sgranati senza riuscire a terminare la frase.

«Completamente fuori da ogni logica umana!» completò Bautone, che stava cominciando a farsi contagiare dalle mie risate. «Completamente e perdutamente...»

            «Fuori di testa!» conclusi io ormai in balia di un'ilarità irrefrenabile.

            Lussilla nel frattempo non smetteva di lanciarci contro improperi su improperi. Ma per noi continuava a non esistere.

«Con comportamenti come il nostro» riprese Bautone a fatica con gli occhi lucidi e tirando su con il naso, «come potremo mai sperare di arrivare da qualche parte?»

 

Io non ce la facevo più dal ridere.

            Gli uomini della barca non capivano. Dicevamo cose tristi, ma era come se ci stessimo raccontando le cose più divertenti del mondo.

 

            Eravamo proprio folli.

            Scandalosamente folli.

            Del tutto sconsiderati.

           

            La nostra ebbrezza si acquietò un po'.

Bautone mi accarezzò.

 

Io mi strinsi a lui.

           

Ero felice di poterlo fare.