IL VIAGGIO

Ecco il diario di un mio viaggio del 1967 che per me diciannovenne fu un vero e proprio "viaggio di iniziazione" dopo i sogni dell'adolescenza. È un po' l'avventura di un figlio unico che fino a quel momento è vissuto solo nelle sue fantasie, e che ora vuole toccare con mano l'infinito che la sconosciuta realtà sembra promettergli. Ho pensato di caricare questo diario sul sito perché mi sembra un quadretto dell'ambiente, dei pensieri e delle mode di quell'epoca.
Pochi mesi dopo avrei incontrato la ragazza della mia vita e, soprattutto... Dio, che già in queste pagine "fa capolino".


IL VIAGGIO

 

§ 1. RACCORDO ANULARE

Sul raccordo anulare c'erano due ragazzi con lo zaino e il pollice teso. Uno di loro portava anche una chitarra.
Una macchina si fermò, e un signore dal fare gioviale calò il vetro dello sportello.
«Dove andate?» chiese.
«A sud», rispose Gianni, il più disinvolto dei due.
«E che vuol dire "a sud"? Dove?»
«Fin dove riusciamo ad arrivare!»
«Anche in Africa?» lanciò sorridendo il signore.
«Chissà…»
«E perché?»
Seguì un attimo di silenzio imbarazzato. Poi il signore si rispose da sé. «Beh, disse, le vacanze di Pasqua sono sempre una bella occasione per fare una gitarella, no?»
Ecco, è vero che era la vigilia di Pasqua, ma sentire definire il loro viaggio una semplice “gitarella di Pasqua”, beh, era molto, molto poco poetico. Specialmente per Daniele, quello magro, che aveva faticato non poco ad ottenere il permesso dei suoi genitori. Per Daniele quella era addirittura la ricerca della sua realizzazione umana.
Si era nel 1967, e i ragazzi di Roma avevano da poco cominciato a fantasticare sui “beat”, quei favolosi vagabondi che percorrevano in lungo e in largo le superstrade americane scroccando passaggi ai camionisti, che si vestivano con gli indumenti militari di recupero della guerra del Vietnam, e che con il loro stesso essere contestavano la civiltà dei consumi e le sue comodità in nome di una libertà senza prezzo.
Il menestrello di questa anticiviltà era Bob Dylan, e Daniele si era abbeverato a quelle canzoni scritte in un inglese per lui incomprensibile, trovando con l'immaginazione i significati più fantasiosi di quei versi fitti fitti pieni di nomi, inseguendo le visioni che affioravano alla mente da quella musica western che evocava vaste praterie, libertà sconfinate, il mistero di terre inesplorate, e le avventure dei film di cow-boy di quando era ragazzo.
Ogni volta che vedeva un “beat”, con monili e capelli lunghi, Daniele intuiva un’altra civiltà, esperienze inenarrabili di viaggi e di conoscenze di popoli. Ed era partito per scoprire e conoscere anche lui quella civiltà nuova, e capire a fondo quello che c’era da capire, quel nuovo pensare che si esprimeva in letteratura di Kerouac, filosofia di Marcuse e, ovviamente, nelle criptiche canzoni di Bob Dylan. Certo, uscire fuori dalla sua esistenza quotidiana e sicura era pieno di pericoli. Ma la spinta ad andare via e conoscere le cose era più forte della paura e dell’inerzia.
Sentiva che c’era un messaggio, una causa, una testimonianza da dare al mondo, c’era da esser profeti di qualcosa, e ciò richiedeva come iniziazione quanto meno un viaggio, per aver diritto a portare un monile regalato da qualche capo tribù o una cinghia che avesse una storia.

A onor del vero nella mente di Daniele era sempre vivo il ricordo dell’esperienza vissuta mesi prima con tale Jack Chiavelli, un suo compagno di scuola che in realtà si chiamava Giacomo ma si faceva chiamare Jack per "scena", e che a scuola vestiva da "hippy".
Jack diceva in giro di saper suonare la batteria e Daniele non aveva dubitato nemmeno un momento di lui, curiosissimo di sentire quale nuova musicalità potesse promanare da un abitante dell’”altra civiltà”. In realtà però poi, quando Jack aveva messo piede nella cantina del complessino di Daniele, aveva preso le bacchette alla rovescia, aveva dato quattro colpi sconclusionati sul rullante, e aveva mostrato tutta la sua incapacità musicale. Jack aveva bleffato! Aveva creduto di poter suonare così, senza aver visto mai una batteria!
Ma questo episodio non aveva minimamente scosso l’ammirazione di Daniele per l’”altra civiltà". Di ciarlatani non autentici, si sa, ce ne sono sempre tanti in tutti i movimenti.

«E come mai andate al sud?» chiese il signore stringendo il volante.
«Così…» fu la vaga risposta di Gianni. In realtà i ragazzi speravano proprio di essere presi da una macchina diretta a sud, perché il sud si presentava più selvaggio dell’industrializzato nord e prometteva avventure più interessanti.
Il signore, sfoggiando un accento chiaramente meridionale, cominciò a parlare e parlare ben lieto di poter raccontare le meraviglie delle terre del sud, di mostrare i peschi in fiore e il mare dal blu intenso.
Intanto scendeva la sera e i nostri amici chiesero di scendere a Sperlonga, dove c’era un “ostello della gioventù”, ossia un posto dove i giovani escursionisti potevano dormire in camerate.
Il signore gioviale li lasciò con un “arrivederci” che esprimeva tutta la sua simpatia.

 

§ 2. SPERLONGA

Mentre si avviavano verso l’ostello, sulla loro sinistra videro ergersi, come un promontorio sul mare, una stranissima città a forma di bianco tortiglione, che sembrava uscita dalla copertina di un romanzo di fantascienza. Era la città di Sperlonga.
Quando entrarono nella camerata, trovarono altri ragazzi che preparavano il letto per la notte. Un ragazzo li salutò sorridendo, ma Daniele non rispose, non resistendo alla tentazione di fingersi un misterioso straniero che non capisce l'italiano.
Ma al primo commento dei ragazzi si dichiarò, e fu subito amicizia.
Quello che li aveva salutati per primo si chiamava Pietro, ed era un altro che viaggiava come loro. Il primo argomento che unì tutti quanti fu il racconto delle avventure con le ragazze. A sentirlo parlare, Pietro doveva essere un terribile dongiovanni,  che oltre a prendere e lasciare le ragazze che voleva, si era trovato in situazioni davvero imbarazzanti. Ma non fu solo quello, l’argomento di conversazione. Dopo un po’ passarono a raccontarsi bravate di tutti i tipi, dai furti di mele dagli alberi alle risse più divertenti.
Poi conobbero anche Hans, biondo con la barba, che ci teneva a dire che era della Germania del Sud. Hans fu subito interessato alla chitarra di Daniele, la accarezzò, la chiese in prestito e si esibì in una nenia germanica che i nostri amici si sorbirono pazientemente.
Di notte Daniele non riusciva a dormire, forse anche per il russare poderoso di qualcuno nella camerata, e guardava quella strana città a picco sul mare, tutta bianca nel chiarore della luna. Avrebbe trovato lì qualcosa di ciò che cercava?

E l’indomani eccolo salire, con l'inseparabile Gianni e con Pietro, per le vie di scalini bianchi della città, tra volti puliti e curati delle gente. Vide una donna con un pennello bianco in mano che ritinteggiava gli scalini davanti  alla porta della sua casa.
E in piazza c’era la chiesa. Era il giorno di Pasqua e c’era grande affollamento.
Gianni si sedette su un muretto a picco sul mare e si mise a torso nudo a prendere il sole. Era un atteggiamento di libertà che, nella lontana epoca in cui si svolge la nostra storia, risultava molto provocatorio, specialmente nei confronti delle persone che, vestite a festa, si recavano alla messa domenicale.
Daniele disse: «Gianni, oggi è Pasqua, Andiamo a messa anche noi!»
«Ma neanche per idea! Non ha nessun significato!»
«Perché dici così? Male non ti fa».
«Ma, dico io, un po’ di coerenza! Ma tu ci credi, in Dio?»
«Non lo so».
«E allora? Che senso ha andare lì dentro dai frati?»
«Ma io non vado lì dentro per i frati!»
«Allora per cosa? Per stare in mezzo a tutta quella gente imbellettata che non aspetta che la domenica per mettersi in mostra?»
E qui Daniele si stupì moltissimo di vedere intervenire Pietro a favore della sua proposta..
«Ma Gianni» disse infatti Pietro, «oggi è un giorno speciale!»
E Gianni si imbestialì. Daniele non lo aveva visto mai così duro.
«Già, perché tu ci vai a messa la domenica?»
«No», rispose Pietro.
«E allora che senso ha andarci oggi perché è Pasqua?»
«Che c’entra? Oggi è Pasqua!»
«Ma siete tutti una massa di pasticcioni senza midollo! Tu poi, Pietro, che stai sempre in mezzo alle ragazze, che fai quello che ti pare, che rubi e che non vai mai a messa, oggi cosa, ti dà di volta il cervello?»
«Ma Gianni, non ammetti che ci sono giorni in cui uno può fermarsi un momento e fare qualcosa di buono?»
«No», gridò Gianni, «no, non lo ammetto. Dio non c’è. Io non ci credo e non ci credi neanche tu, pertanto sei stupido ad andare a messa oggi che è Pasqua!»

Intanto sotto di lui il mare si tingeva di un azzurro intenso e il sole in alto continuava ad irradiare generoso la sua luce, riscaldando le pelle di Gianni. Una lieve brezza gli accarezzava i capelli e donava un delicato refrigerio al suo corpo. Il mondo sembrava dispiegato e chiaro, e pareva di poter spiccare un volo e vedere tutte le cose, tutte le strade, tutte le case. La messa di Pasqua era cominciata e dalla chiesa si sentivano dei canti.
«Dài, disse Daniele, andiamo Gianni, vieni!»
«No, non ci si deve andare! Che uomini siete? Dite una cosa e poi ne fate un’altra!»
«Io non ho detto niente» ribatté Daniele. Però non sapeva bene cosa fare.
Di solito la domenica a messa lui c’era sempre andato. Anzi, ricordava quella gioia che lo invadeva bambino quando usciva dalla messa delle domenica. Per tornare a casa doveva attraversare un tratto di strada orientato in modo che a quell’ora sembrava di camminare incontro al sole. Con quel sole davanti, e il cuore purificato… viveva la sensazione di avere Dio dentro di sé e Dio davanti a sé. Daniele era felice, e correva, e saltava. Sensazioni…
Ora però non era più un bambino, era volato via dal caldo tepore del nido, e stava percorrendo un’avventura che poteva essere lo stacco, la diversità di tutto. Quel richiamo di Gianni alla coerenza lo feriva, e sentiva che doveva a un certo punto fare una scelta. Non andare a messa per lui sarebbe stato duro. Ma se era partito doveva essere pronto anche a quello.
Pietro disse: «Ciao!». E salì le scale del sagrato per entrare in chiesa.
Daniele rimase a guardarlo, e poi guardò Gianni steso a torso nudo sul muretto, con le mani sotto la nuca e gli occhi chiusi. Era il suo compagno. Era importante quello che lui pensava. Daniele rimase lì in piedi fermo per un minuto.
Si chiese se l’ateismo fosse fondamentale nell’esperienza che stavano vivendo, nell’anticiviltà dei “beat”.
Alla fine pensò di rimandare il problema e disse: «Io vado! Tu vieni?»
«No», rispose Gianni, aggiungendo tante belle parolacce in romanesco.

 

§ 3. RUTH

A ora di pranzo Daniele e Gianni si fecero offrire un morso di mozzarella da Pietro e poi si guardarono intorno per scoprire se ci fossero alberi da saccheggiare. Purtroppo no. Era senza dubbio romanzesca quella loro decisione di non spendere una lira per tutto il viaggio, proprio come se fossero fuggiti di casa. Erano pronti anche a trovarsi lavoretti saltuari in modo da essere proprio autosufficienti. Quando comunque tutto fosse stato loro avverso, avevano sempre del denaro nascosto nelle mutande che avrebbe risollevato le sorti del loro stomaco pur facendo crollare in parte il romanzo che stavano vivendo. Tant'è che nell'immediato decisero di attingere a quel fondo segreto per prendere un latte al bar, che scaltramente riempirono all’inverosimile di zucchero, in modo da fare il pieno di energie che non si pagavano.

Aggirandosi poi intorno all’ostello conobbero Ruth. La cosa interessante era che Ruth era inglese, coi capelli rossi, e le lentiggini, proprio come l'attrice di un film western che Daniele aveva visto da piccolo, e della quale si era subito innamorato senza nemmeno conoscerne il nome. Solo che Ruth non era affatto così bella.
Daniele ripensò a quell'attrice. Quando l'aveva vista al cinema e si era ritrovato trafitto dalla sua bellezza, nella sua mente quel viso di era sovrapposto al ricordo di un altro viso, quello di un innamoramento che aveva avuto a 11 anni, e dalla mistura amore-bellezza-west in Daniele aveva preso forma l'immagine di una ragazza ideale, un prototipo dai contorni molto poco definiti a cui lui aveva dato il nome di Angela, il nome della ragazzina dei suoi 11 anni.
Quando poi al liceo aveva studiato il “dolce stil novo”, con Dante che nel suo libriccino "Vita Nova" inneggia alla “donna angelo”, in essa Daniele aveva riconosciuto la sua "Angela", e ne aveva fatto l’oggetto dei suoi sentimenti e delle sue canzoni d’amore. In pratica aveva anche Daniele la sua Beatrice altrettanto astratta come quella di Dante.
Si era costruito un’immagine di donna che raccogliesse tutto ciò che di bello e di buono poteva esserci a questo modo, tutto ciò che parlava di spirito, di paradiso e in qualche modo di Dio. Era dunque qualcosa di sacro, di cui Daniele non aveva parlato con nessuno, se non nelle sue canzoni. E, assurdo a dirsi, Daniele la andava cercando, Angela! Forse era Angela il suo obiettivo di questo viaggio, anche se ormai, a venti anni, era abbastanza cresciuto da sapere che non avrebbe mai trovato tutta quella purezza di cui la sua Angela era rivestita… perché le ragazze tutto erano meno che immagini di purezza. Anzi, quando aveva preso questa consapevolezza, Daniele aveva avuto come la sensazione di precipitare dal paradiso dei suoi sogni nella bolgia infernale di una realtà immonda. Ma era la realtà. E Daniele voleva conoscerla, vedere se c’era qualcosa di buono.
Anche se tutto ciò che lo circondava gli parlava di crudezza, di egoismo di tradimento di volgarità, Daniele sentiva nel suo profondo che invece qualcosa di bello ci doveva pur essere, nella realtà.. Forse, sotto sotto, la vera ragione per cui era partito era stato voler scoprire cosa c’era sotto a quella fantasmagoria di colori che dipingevano i tramonti, voler toccare l’orizzonte del mare, voler vedere cosa erano quelle terre favolose che i profumi del vento suggerivano alla sua fantasia. Aveva lasciato la sua casa sicura, il mondo dei suoi sogni, per camminare nel mondo della realtà e trovare lì la risposta. Da bambino, quando le rondini volavano in alto, e ancor più in alto, e poi si gettavano in picchiata sfiorando la sua finestra e la sua mano tesa, aveva intuito che c’era qualcosa da afferrare, da capire, qualcosa di bellissimo e di infinito.
Questo suo viaggio, ora, era un viaggio per toccare l’infinito.

Con questi pensieri nel cuore Daniele disse a Gianni: «Andiamo avanti!»
Gianni non capiva.«Ma come, proprio adesso?»
«Proprio adesso che?»
«Ma non ti accorgi che vai a sangue” a Ruth?»
Non so se il termine “vai a sangue” si continua ad usare. A quei tempi e in quei luoghi significava “piacere appassionatamente”.
Come si può intuire, il movente del viaggio per Gianni era stato molto diverso da quello indefinito di Daniele. Gianni, avido di avventure sentimentali, aveva trovato in Daniele un possibile “attira ragazze” in quanto, oltre a non essere brutto, aveva la chitarra in mano, e a quei tempi bastava fare quattro accordi per attirare subito una folla di giovani uditori e, soprattutto, uditrici. All’ombra di Daniele, Gianni sperava di mietere conquiste. Che Daniele continuasse pure a cantare con l’occhio perduto nel vuoto. Lui, Gianni, avrebbe sfruttato tutte le possibilità che Daniele non vedeva.
«Riprendo la strada!» insisté Daniele.
«Ma perché?» piagnucolò Gianni. «Ma non capisci proprio niente, sei sempre con la testa fra le nuvole. Abbiamo fatto una amicizia! Fermiamoci e vediamo come va a finire!»
«No, dobbiamo continuare il viaggio!»
«Ma dove devi correre?»
«Non so».
«E allora restiamo qui, Almeno un giorno, un giorno solo e vediamo come va a finire con Ruth!»
Sentire quella proposta e quel nome fu come una doccia fredda per Daniele. Non poteva forse avere ragione Gianni? Non poteva essere magari il caso di tentare un'avventura sentimentale?
Ma poi prese coscienza di una cosa.
«Ruth non mi piace!».
«Ecco il solito scemo che va per il sottile! Ma cosa vorrai mai? Ma cosa ti costa provare con una anche se non è la fine del mondo?»
Daniele scosse la testa e prese il suo zaino sulle spalle.
«Sei il solito deficiente schifiltoso!» riprese Gianni. «E poi Ruth non è poi così brutta! Ma se anche fosse, questo è secondario, se trovi che ti ci sta…» e continuò elogiando le donne per il solo fatto di essere donne.
Daniele prese la chitarra e si avviò sulla strada. Ma Gianni non demordeva e lo inseguiva tentando di convincerlo.
«Tu, con le tue solite idee di cose che non esistono, ti fai sfuggire tutte le occasioni vere che ti passano tra le mani. Ma perché non ti accontenti una buona volta? D'altra parte anche se Ruth non vale granché, chi ti impedisce di spassartela con lei senza impegno?»
«Non credo che si possa stare con una ragazza senza impegno, non siamo mica cani!»
«Eccolo che ricomincia!»
«Sì», continuò Daniele, «perché un rapporto con una persona è una cosa che ti prende dentro!» Si batté melodrammaticamente sul cuore e seguitò: «e alla fine in qualche modo sei invischiato. Apposta non comincio nemmeno, non sarebbe onesto!»
«Sentilo, lui, che parla di onestà! Allora sei stato onesto, quando sei andato appresso a Giuliana?»
Pronunciando quel nome Gianni sapeva bene di accendere una miccia. Così la conversazione continuò calda e vivace tra i due amici, che a spada tratta si spiattellavano l'uno contro l'altro le rispettive magagne sottolineando le contraddizioni, in un susseguirsi violento di frecciate per abbattere l'avversario.
Strillando e gesticolando in questo modo, si avviavano verso la strada. A un certo punto Gianni si fermò. Ma Daniele proseguì imperterrito.
Allora Gianni, sconfitto, tornò di corsa nell'ostello per riprendere il suo sacco. Incontrò Ruth. La salutò stringendosi nelle spalle. «Quello là, disse, ha una rotella che non va. È uno che non si accontenta mai di niente. Ma cosa vuole? Lo sapesse, almeno!»
E corse col suo sacco incontro all'amico che lo aspettava al bordo della strada, già col pollice in fuori nel gesto dell'autostop.

 

§ 4. NAPOLI

Fu interessante scoprire come ogni autista che li caricava aveva un suo motivo. Prima era stato un ragazzo bruno e riccioluto che diceva di averli fatti montare sul suo furgoncino perché anche lui ai suoi tempi aveva fatto l'autostop, e sapeva cosa significasse trovare un'anima buona con la macchina. Si era messo a raccontare tante avventure, di posti visitati, bellissimi e lontani.
Poi era stata la volta di un triciclo cassonato, che si era fermato nella speranza di farsi pagare i passaggio dai due autostoppisti. Ottenuta la risposta negativa, si era mostrato vergognoso di aver fatto quella richiesta, e così li aveva fatti ugualmente montare nel cassone, insieme alle altre cianfrusaglie. Per fortuna quel passaggio era durato poco, e la schiena ventenne dei ragazzi, dopo dieci minuti era tornata come nuova.
Infine era stato un camion con due uomini, che li solleticavano a raccontare le loro avventure (che non c'erano), con particolare riferimento a quelle amorose (che non c'erano nemmeno quelle). Li avevano raccolti perché erano sicuri che due viaggiatori giovani e aiutanti non potevano che andare in giro per vivere esperienze erotiche, e così volevano allietarsi il viaggio con simili racconti. L'insistenza di quegli uomini era stata fastidiosa anche per Gianni, che si sentiva bloccato nella sua pur fervida fantasia. In altre circostanze sarebbe partito in quarta a raccontare meravigliose bugie sul suo conto  anche su quello di Daniele, ma lì… non se la sentiva. Quando erano poi scesi, avevano avuto la liberante sensazione di essere venuti via da qualcosa di sporco.

E così scesero nel traffico di Napoli, in una piazza dove le automobili e i pedoni sembravano procedere casualmente, come in un formicaio.
L'ostello era in via Posillipo 58. Chiesero informazioni,e vennero a sapere che era lontanissimo.
Gianni propose allora, d'istinto, di prendere l'autobus, ma subito ritirò la proposta di fronte al veto di Daniele, che gli rammentò con forza la loro ferma intenzione, all'atto della partenza per quel viaggio, di andare per il mondo senza spendere soldi.
«Poiché in città l'autostop non si può fare» disse Daniele «non ci resta che andare a piedi!»
«Noooo» disse e ripeté Gianni. Ma Daniele ormai aveva preso in mano la situazione e trascinava l'amico in una lunga camminata. Tra l'altro non gli dispiaceva di farsi vedere in una città straniera con la tenuta da "beat", lo zaino e la chitarra penzolante.
Ma quella città era Napoli, e a Napoli pare che non sia consentito assumere arie stravaganti o misteriose senza richiamare la pernacchia. Pernacchie vere e proprie non ci furono, ma qualcuno disse: «Ecco Giuhànne co' a chitarra» e la frase ferì Daniele, che sperava di destare solo ammirazione. Tra sé ribatté: «No, non sono GIuhànne co' a chitarra, suono sì la chitarra, ma io sono un "beat"»
Attraversarono il lungomare, la splendida via Caracciolo e guardarono il maschio Angioino. Poi trovarono via Posillipo! La via saliva. Stanchi per la lunga camminata, appena lessero il nome della via e il numero civico 1, sospirarono pensando di essere quasi arrivati. Si dissero:«Il numero 58 non deve essere lontano!». Invece scoprirono che dopo il numero 1 non veniva il numero 2, ma l'1A, poi l'1B e così via. Così dopo un'ora e più di strada in salita, sfiniti, arrivarono all'ostello, messo in una posizione bellissima, a picco sul mare. Si vedeva tutto il golfo, col classico pino  il Vesuvio.

Trovarono la pastasciutta particolarmente buona. A cena ritrovarono Hans, che raccontò loro di come fosse stato "caricato" da un ricco signore che lo aveva fatto girare per le sue tenute e lo aveva tenuto a pranzo.
Gianni allora, per ricambiare questa narrazione che destava un po' di invidia, cominciò a raccontare la giornata passata abbellendo la narrazione con esilaranti avventure mai vissute.
Passarono una notte un po' insonne, non tanto per un gruppo di ragazzi tedeschi che russavano poderosamente, quanto per uno spiffero d'aria che si infiltrava inclemente dalla finestra chiusa e li teneva svegli. Tutti gli accorgimenti per tappare bene le possibili fessure con abiti e giornali non servirono a niente, lo spiffero li torturò tutta la notte.
L'indomani, svegliati all'alba dal gruppo dei tedeschi che facevano ginnastica e doccia, scoprirono che i vetri della finestra non già erano "puliti" come sembrava, ma mancavano proprio! Ecco la causa dello spiffero!

Gianni insistette per andare – prima di rimettersi in viaggio per andare ancora più a sud di Napoli – a fare un salto a Forcelle, il famoso "mercato delle pulci" di Napoli, collegato per vie misteriose a "Porta Portese" di Roma ed altri mercati dove si riciclava la roba rubata. Gianni voleva comprare un accendino Ronson e pagarlo quattro soldi, per poter tornare gongolante a Roma ad esibire il suo affare.
Si addentrarono tra la fitta folla. Al vederli così vestiti, subito si avvicinarono loro nugoli di venditori, che mettevano le mani sulle loro spalle e sussurrando nell'orecchio strane proposte tipo: «Wisky? Filmini pornografici?» Daniele scuoteva la testa senza rispondere, continuando il gioco di fingersi straniero.
Gianni invece andava dicendo a tutti in giro che lui era di Roma, e che nessuno lo fregava. A forza di ripetere che era di Roma e che nessuno lo fregava, gli si avvicinò un giovane biondo e riccioluto che riuscì a capire che Gianni voleva acquistare un accendino Ronson. Così tirò fuori dalla tasca un astuccio dal quale estrasse con cura un accendino Ronson. Gianni lo guardò sospetoso, lo rivoltò, svitò una vitarella per essere sicuro che non si trattasse di un'imitazione o di un imbroglio. Alla fine si convinse che era proprio un Ronson autentico e lo restituì al giovane, che lo ripose con cura nell'astuccio.
Seguì la contrattazione e Gianni disse: «2500!». E quello: «No, almeno 3800». Gianni ripeté che era di Roma e che nessuno lo fregava. Quello scese a 3500 e Gianni salì a 2800. Quello scese a 3400 ma Gianni tenne duro a 2800. Allora il giovane, scoraggiato, disse: «Non posso!» e si rimise l'accendino in tasca, allontanandosi. Poi, come preso da un improvviso ripensamento, si rivoltò ed esclamò: «Va bene, hai vinto, dammi le 2800». Gianni trionfante pagò e il giovane tirò fuori delicatamente dalla tasca l'astuccio.
«Io sono di Roma e nessuno mi frega!» ripeteva paternamente Gianni mentre apriva l'astuccio pregustando la visione del suo novissimo accendino Ronson.
Un grido lacerò l'aria: «Porca miseria, mi ha fregato!» Nell'astuccio risplendeva solenne uno schifoso accendino laccato, souvenir di San Marino.
«Dov'è?» grugnì Gianni rivoltandosi nella folla. Non sarebbe stato impossibile individuarlo; era riccio e biondo, con una maglietta celeste.
Però improvvisamente si vide circondato da 3 ragazzi ricci e biondi, tutti simili e con la maglietta celeste. Anche sull'uscio di un negozietto più in là c'era un altro ragazzo, riccio e biondo con la maglietta azzurra!  E tutti questi "cloni" guardavano Gianni, e ridevano!
«Andiamo via!» disse Daniele!
Gianni era recalcitrante: da un lato voleva scappare via, dall'altro voleva una rivincita, la possibilità di rifarsi e di non portarsi dietro quella bruciante buggeratura!
Però ormai era sfumata la voglia di continuare a cercare occasioni a Forcelle, per cui i nostri eroi si rimisero in cammino e per andare sulla strada che portava a Salerno.

 

§ 5. SALERNO

Dopo tre ore si ritrovarono seduti al bordo della strada, sotto un albero. Gianni continuava a rimuginare sulla buggeratura ricevuta e ogni tanto ritirava fuori l'astuccio e si contemplava l'accendino di San Marino scuotendo sconsolatamente la testa.
La giornata si presentò difficile. Daniele e Gianni dovettero aspettare un'intera mattinata prima di trovare un passaggi, mentre nei loro giovani stomaci cominciava a muoversi il cosiddetto "gorgoglione".
Verso ora di pranzo Gianni cominciò a dire "Ho fame". Poi lo disse ancora, e alla fine divenne un lamento ripetitivo, a scadenze di pochi minuti. Questa cantilena indispettiva Daniele, teso al viaggio e sprezzante di necessità così materiali come mangiare. Questa suo diversità nei confronti di Gianni gli faceva pensare in cuor suo com'è difficile trovare un amico.
Gianni non rispondeva certo al prototipo di amico che Daniele avrebbe desiderato.
Il prototipo dell'amico, così come Angela prototipo della ragazza, era rimasto solo un suo sogno.
Quando era più piccolo Daniele aveva frequentato un certo Sandro, che era un perfetto compagno di studi e di giochi, ma solo quello. Sandro non aveva il senso della musica e Daniele non poteva fare affidamento su di lui per suonare o cantare con qualcuno. Ancora, Sandro non apprezzava le poesie, e meno che mai quelle che scriveva Daniele. E poi Sandro non si poneva problemi esistenziali, ma sembrava che l'unica cosa che gli piacesse fosse mettere tanto parmigiano sulla pastasciutta.
Così Daniele non aveva trovato in Sandro l'amico dell'anima. Né lo aveva mai trovato.
Quelli che cantavano e suonavano con lui, Daniele li trovava pieni di difetti: Franco lo guardava dall'alto al basso, Pino era prepotente, Riccardo era attaccato ai soldi e poi aveva delle brutte amicizie, Sergio andava bene per tantissime cose ma non sapeva suonare bene, Bruno era troppo attaccato alla mamma, Maurizio era simpaticissimo ma inafferrabile, evanescente, sempre intento a qualche nuovo hobby che lo distraeva da tutto.
Le poesie, poi, non ne parliamo: chi aveva il minimo interesse, o anche solo la pazienza di stare a sentire le sue storie e le sue fantasie?
Così Daniele aveva cominciato a fare canzoni mettendoci dentro tutto il suo mondo. E aveva scoperto che così riusciva a dir quello che aveva dentro, e poteva raccontarlo, ma più come semi che si lanciano al vento, verso ipotetici amici, che non come cose che si dicono all'amico. Insomma questo amico compagno dell'anima, che Daniele sentiva che doveva pur esserci da qualche parte, non l'aveva ancora trovato.
Aveva trovato compromessi, come questo debole Gianni che diceva cose volgari come "Ho fame", che per lo meno era scapestrato quanto basta per accompagnarlo in questo viaggio. Ma forse un'altra cosa che Daniele cercava in questo viaggio era l'amico.

A Salerno mangiarono pasta e ceci, e dormirono saporitamente. L'indomani raccolsero le firme di due ragazze sulla chitarra, ma questa trovata non servì per fare una gran conoscenza con le due autostoppiste, che furono subito caricate su un camion e sparirono.

 

§ 6. PAESTUM

Come fu, come non fu, i nostri eroi arrivarono a Paestum. Percorsero il sentiero che porta alla spiaggia con i ruderi, ma prima di arrivare Gianni si fermò in un casolare alla ricerca di qualcosa da metter sotto i denti. Sembrava deserto. Ma a un certo punto alla finestra si affacciò una ragazza bruna che chiese cosa volessero. Gianni gridò: «Qualcosa da mangiare!». Quella si ritrasse, e dopo un po' calò dalla finestra, con estreme diffidenza, un cestello con due uova.
Arrivarono alla spiaggia.
Gianni si buttò subito i acqua per fare il bagno.
Daniele invece si sdraiò sui ruderi, a fianco delle colonne, e guardò il cielo dove spuntavano le prime stelle. Ecco di nuovo quel senso di mistero, di infinito, quel desiderio di viaggiare lassù a conoscere mondi inesplorati…

«Mi fai accendere?» disse una voce.
Daniele trasalì, e vide una ragazza col naso un po' lungo e una sigaretta in bocca.
«Non fumo» balbettò, e divenne rosso.
«È tua?» chiese la ragazza indicando la chitarra.
«Sì»
«La sai suonare?»
«Certo! Anzi, vuoi mettere una firma?» Daniele armeggiò goffamente nella sua giubba "US ARMY" e tirò fuori una penna.
La ragazza buttò via la sigaretta e, sorridendo, scrisse "Cristina".
Solo allora Daniele si accorse che Cristina era alta e magra, indossava camicetta, pantaloncini e sayonara. Sul suo viso si vedeva bene l'acne giovanile nonostante fosse bene abbronzata
«È un nome bello», disse Daniele, pensando fra sé e sé - chissà perché - che quel nome fosse inventato. Stava lì lì per chiederle conferma, ma tacque, perché aveva ormai imparato che, le ragazze, non è vero che vanno trattate duramente, come gli aveva insegnato il suo amico Miguel della Spagna. Le ragazze sono sensibili e suscettibili.
E Daniele continuò;: «Abiti qui?»
«Sto nell'ostello»
«Oh, che bello, anche io!»
«E tu da dove vieni?»
«Da Roma, col mio amico Gianni, quello laggiù in mezzo alle onde!»
«E dove andate?»
«Chissà… siamo "beat"!» rispose con un sorriso ambiguo tra lo scherzoso e il serio.
«Io invece ho una villa qui vicino. I miei non ci sono ancora!»
Daniele scopriva che era piacevole parlare con Cristina, e cercò di non lasciar cadere la conversazione, pur impegnandosi a non mostrare un interesse speciale per lei.
«Tu devi avere 18 anni, vero?» chiese Cristina.
«Quasi. E tu una ventina!»
«Quasi»
«Come ti chiami?»
«Daniele»
Cristina si sedette e chiese candidamente: «Daniele, tu ce l'hai la ragazza?»
E Daniele diventò rosso rosso. Aveva paura che dicendo di sì avrebbe spezzato il rapporto che sembrava nascere. D'atra parte dire no era come ammettere che gli mancasse qualcosa. E Daniele non voleva sentirsi in posizione di inferiorità. Assolutamente no.
Però la verità era che la ragazza lui in quel momento non poteva dire di averla. Però, che domanda assurda gli era andata a fare Cristina, e così all'improvviso! Scelse la risposta di sempre: «Eh, disse sospirando, è una lunga storia». Ma questo non saziò Cristina
«In che senso?»
«Nel senso che sì, c'è, però…»
«Che vuoi dire?»
«Senti, mi è più facile farti sentire una canzone che dice queste cose!»
Ormai Daniele l'aveva buttata sull'artistico e invece di una conversazione stava diventando un piccolo show. Daniele cantò una canzone che parlava di una ragazza purissima, bellissima, impalpabile e irraggiungibile: Angela!
Cristina ascoltava con gli occhi sognanti rivolti al cielo, in un misto tra concentrazione ed estasi, e con le mani in testa si martoriava i capelli. Anche lei faceva il suo piccolo show.
Alla fine mangiò la foglia. «Angela non esiste!»
«No, confessò Daniele, ma la cerco»
«Non la troverai mai»
«Non ci credo»
«Ma una ragazza vera, viva, reale, non l'hai mai avuta?»
Daniele era troppo sulle difensive per riuscire a giudicare il modo di fare di Cristina, che incalzava senza pietà. In un altro momento si sarebbe chiesto dove Cristina volesse arrivare.
«Sì che ce l'ho avuta, ma mi sono pentito!»
«Perché?»
«Perché sono entrato nella sua vita praticamente senza una ragione, ho fatto una gran confusione e me ne sono andato lasciandola male. Potevo pure starmene fermo senza scocciare nessuno!»
«Beh, ma questa è la vita, si sa!»
«È una vita che non mi piace!»
«E allora perché ti sei messo con questa qui?»
«Perché dopo la maturità, per me, avere una ragazza era un punto d'onore, un punto d'arrivo. Sono stato per tutta la mia adolescenza a studiare, studiare, come se lo studio fosse la cosa più importante. E le domeniche io studiavo, e dalla finestra delle mia camera vedevo il mio amico Sergio con la sua ragazza. Soffrivo guardandoli passeggiare tenendosi per mano, e riprendevo a studiare. Finché non finì quel benedetto esame di maturità: mi guardai intorno e vidi Giuliana. E dissi tra me e me, come in una sfida: "Vediamo se riesci a metterti insieme a quella lì". Così, capisci? Solo per provare a me stesso che ero capace! Non per lei! Lei o un'altra sarebbe stato lo stesso. Non avevo la minima esperienza, in materia, non sapevo come si fa a "farsi la ragazza". Però volevo farlo. Così, come è nel mio carattere, studiai con determinazione la faccenda e poi attuai il piano. Si trattava innanzitutto di riuscire ad avvicinare Giuliana senza diventare rosso. E prima di arrivare a un tale risultato avevo bisogno di un preciso allenamento…»
Cristina rise.
Ma Daniele, serio, alzando le sopracciglia, seguitò: «Sì, era un vero blocco questo mio diventare rosso davanti alle ragazze! Per cui era chiaro che dovevo, una volta per tutte, "perdere la faccia", ossia di passare sopra come un panzer alla mia timidezza. L'occasione di fare un tale allenamento mi si presentò al mare. Eravamo un gruppo di giovani sotto una grande rotonda riparata da un tetto di canne, e lì cominciai a fare dichiarazioni d'amore scherzose a tutte le ragazze che venivo a conoscere:  "Sai, io ti amo appassionatamente ma non so se sperare… ecc… " E, guarda caso, tutte non solo erano lusingate da questo scherzo, ma rispondevano che ci avrebbero pensato e che comunque potevo alimentare la speranza. Alla fine di questa manovra, ancora caldo ed ebbro di parole altisonanti, andai verso il mio obiettivo e riuscii a dire le cose seriamente e senza diventare rosso
«E come è finita?» chiese Cristina..
«È finita che la notte di capodanno, dopo tante storie le ho chiesto se voleva davvero essere la mia ragazza. E lei ha annuito E io felice! Potevo dire con tutta sincerità di avere anche io la ragazza!»
«Ed è stato bello?»
Come un lampo passò nella mente di Daniele quel giorno di neve in cui si era lasciato con Giuliana. In realtà non era stato un lasciarsi, perché in realtà non erano stati mai insieme.
L'ansia di Daniele di poter ufficialmente dire di avere la ragazza lo aveva portato a ottenere quel sì da Giuliana così, tra due persone che si conoscevano appena e tra le quali non esisteva nemmeno un po' di amicizia. Giuliana piaceva ai ragazzi della comitiva, e Daniele aveva lavorato per mostrare al mondo di essere così splendido da possedere la ragazza che gli altri desideravano.
La notte del sì, si era sentito completo: aveva risolto i suoi problemi sociali e personali, aveva la ragazza! Ora però si poneva il problema di come gestire la cosa. Si sarebbe trattato di prenderla per mano vincendo le reciproche timidezze, di andare ad aspettarla fuori dalla scuola e magari, contro i consigli di Gianni, portarle i libri (pareva che si facesse così tra coppiette, no?), di uscire la domenica e soprattutto di mostrarsi in pubblico insieme. Faticosamente Daniele aveva intrapreso alcuni di questi adempimenti di "accoppiato", ma a un certo punto si era insinuata nuovamente nella sua mente, come tante altre volte in tante altre circostanze, quella vocetta che sussurrava: "Ma perché lo fai? Ma cosa vuoi veramente? Ma tu chi sei?".
La domanda : "Tu chi sei?" pur affiorando in quei frangenti, a rigore non c'entrava molto con Giuliana, semplicemente faceva parte del repertorio della vocetta. Quando la vocetta parlava Daniele si sentiva veramente a nudo, e quel "Tu chi sei?" - che conteneva in sé anche il concetto "Tu da dove vieni?" - gli metteva ogni volta un senso di panico acuto.
Chissà cos'era, questa vocetta! Senz'altro un richiamo ad essere autentico e a non interpretare ruoli non connaturali.
«No, non è stato bello!» rispose a Cristina. «Se tornassi indietro non lo rifarei per tutto l'oro del mondo».
«E non hai fatto canzoni per quella ragazza?»
«Oh, sì» sorrise Daniele, lieto di avere un pretesto per riafferrare la sua chitarra.
Mentre cantava ancora una volta per Cristina, pensò che era proprio simpatica. Veramente non gli era mai successo con nessuno di poter parlare di sé così nel profondo e di cose tanto personali. Cristina chiedeva tutto, ascoltava tutto, era come l'amico che lui aveva sempre desiderato. Pensò che in fondo Cristina non era nemmeno brutta, anzi…
Intanto dalle schiume del mare usciva una scura sagoma, che scrutava con espressione indagatrice due figurette tra le colonne. Appena si rese conto di cosa si trattava, «Disgraziato!» gridò mettendosi a correre verso i ruderi. «Quell'egoista ha fatto una conoscenza e non mi fa sapere niente..!»
Ma appena Gianni arrivò sbuffando, Cristina non si mostrò aperta ad estendere la conversazione anche a lui, e dopo poche battute se ne andò dicendo a Daniele: «Ciao! E tanti auguri!»
«Che voleva dire?» chiese Gianni.
«Lasciamo perdere!» chiuse Daniele

 

§ 7. IL FALÒ

Non fu tanto per la fame che Daniele e Gianni misero mano ai fondi nascosti e dettero il loro contributo alla cena dell'ostello, quanto perché c'era Cristina.
Cristina aveva un carattere esuberante e socievole, e subito diventò l'elemento catalizzatore di tutti i ragazzi dell'ostello. La conversazione era animata e piena di scherzi, non tutti certo di buon gusto. Cristina era la capobanda, e non smetteva di prendere in giro qualcuno. Però risparmiava Daniele. Questo lo faceva pensare, Daniele, era evidente che con Cristina era nato un rapporto. Vederla così spensierata e libera faceva dimenticare tutte le problematiche  le ansie di viaggiare, e attraeva nel vortice dell'allegria.
Poi si alzarono da tavola, ma Daniele rimase un attimo seduto, con lo sguardo in giù, in una posizione sconsolata come di chi, nel mezzo della baldoria, sta lì a pensare alle sue tristezze. In realtà era intento a fare tutto un lavorio con la lingua per togliere un pezzo di nervetto che gli era rimasto tenacemente appiccicato sui denti.
Sentì due dita sotto al mento che gli sollevavano il viso. Cristina, in piedi davanti a lui, sorrideva. E gli disse: «Vieni, andiamo sulla spiaggia!»
Daniele si alzò. Cristina gli fece prendere la chitarra, e corse fuori.
Qualcuno di quei ragazzi possedeva la macchina e così si stiparono tutti in una 500 e in una Dauphine e si avviarono al mare. Daniele era seduto vicino a lei. Quando arrivarono, Cristina lo prese per mano e cominciò a correre, e tutti corsero dietro.
Poi cominciarono a parlare di un falò, dove bruciare tutto tutto. e per gioco presero a fare discorsi assurdi.
«Sarebbe bello bruciare i banchi dell'università! Quelli sì che sono fatti di un legno massiccio!»
«Sì, e i registri dei professori!»
«E le formule degli scienziati pazzi!»
«E le armi! Tutte le armi che hanno fatto»
«Bruciamo le divise di soldati, sì, lasciamoli in canottiera!»

Era un crescendo di trovate, e i ragazzi ridevano e inventavano!
«Io voglio bruciare la mia casa»
«Io brucerei il mondo, la televisione e i giornali!»
«Bruciamo tutte le pantofole e tutte le banche!»

Lanciando queste grida sconclusionate corsero a cercare combustibile lì vicino, ma per grazia di Dio non trovarono che rovi, canne e qualche cartaccia.
E accesero il fuoco, un piccolo fuoco, invero, ma per loro era il fuoco che bruciava tutte le strutture di un mondo fatiscente.
Seduti attorno a questo fuoco lo guardavano come ipnotizzati, e ognuno con la fantasia vedeva ardere ciò che voleva.
Anche Daniele vide ardere i suoi libri, l'immagine di un professionista brizzolato e con l'automobile (quello che lui  doveva diventare) e una fabbrica piena di omini numerati…
Al di là della fiamma vedeva il viso di Cristina. Bruciare anche lei?. No, lei no, perché forse lei era l'amico che cercava, forse anche qualcosa di più, forse addirittura… l'infinito?
«Suona, Daniele!» l'invitò Cristina.
E Daniele cominciò con una canzone di Bob Dylan.
«Ancora!» insistettero gli altri. E Daniele continuò, e suonò, e suonò, ed erano canzoni che gli altri conoscevano, e le cantavano insieme a lui. Era bello.
Questi erano i suoi amici! Con loro sì che si trovava bene! Voleva farli divertire. Scopriva una nuova realtà. Questa era la vita vera, amici che cantano con te, una ragazza che forse…
Gli altri! Questo conta, non le proprie fantasie lasciate a ruota libera in lunghi pomeriggi di solitudine a costruire un mondo inesistente! Gli altri!
Poi Cristina gli chiese di cantare la canzone di Angela. Daniele ebbe un attimo di incertezza, ma poi obbedì. E mentre cantava, ogni volta che pronunciava le parole "angelo purissimo" o "sogno della mia anima" sentiva le risatine di scherno dei suoi amici. Ogni volta era come una ferita, ma Daniele continuava, e sorrideva pure lui come a scusarsi, come a voler dire: "Guardate un po' che cose strane scrivevo una volta, quando non conoscevo voi, quando non sapevo che la realtà è un'altra cosa".
Cristina cominciò a dondolarsi, inventando un nuovo gioco. Trascinò tutti in quella specie di danza, ripetendo ritmicamente: "Ange-là, Ange-là" e fu subito coro.
Daniele non si sentì di associarsi al gioco, e pur rimanendo in cerchio, si gettò con la schiena sulla sabbia e guardò il cielo. Le solite stelle, i soliti sospiri di tanti anni d'infanzia e tante fesserie per la testa. L'infinito? Mah! Questa invece era la verità e la vita. la spensieratezza, il rapporto con gli altri. E con Cristina!
Si rialzò e tornò a vederla attraverso il fuoco, abbracciata ai vicini che si dondolava, gaia e con i capelli sciolti.
Rimase a guardarla. Ma c'era qualcosa che non quadrava. Dapprincipio non capì nemmeno, vedeva solo che Cristina cominciava a ridere più del normale, e ogni tanto si rivoltava di fianco a guardare un ragazzo, di cui Daniele non conosceva neanche il nome, che le teneva una mano sulla spalla. Rideva anche il ragazzo. E anche Cristina gli teneva una mano sulla spalla.
Poi, senza preavviso, senza motivo quasi, come persone che già si conoscono, quel ragazzo le diede un bacio sulla guancia, e lei ricambiò con estrema confidenza.

E Daniele sentì che Cristina non c'entrava niente con la sua vita, e che tutti quegli amici non c'entravano niente con la sua vita, che quel fuoco, quel gioco, tutto… era sbagliato
Per orgoglio continuò a stare con loro e a farli divertire. Che nessuno avesse impressione che lui si fosse dispiaciuto della nuova amicizia di Cristina.
Geloso.
Geloso di che? E di chi? No, lui era solido e sicuro di sé.
Ma quella compagnia e quello stare così in riva al mare non aveva più senso e gli era sempre più fastidioso.
Oltretutto, ecco Gianni che gli andò a sussurrare all'orecchio: «Hai visto Cristina?» e continuò con apprezzamenti negativi, senza dubbio gonfiati, ma che Daniele stavolta approvò in pieno.

§ 8. IL RITORNO

Sotto un cielo ancora stellato, in una mattinata rallegrata da un lieve fresco venticello, ecco di nuovo due figure ai bordi della strada. Pollice in alto, espressione speranzosa, atmosfera "beat", Gianni che ha attaccato le sue solite proteste e stavolta sente di avere una ragione schiacciante.
«Ma insomma, io non ti capisco proprio, Daniele! Venir subito via, così, senza ragione. Prima una grande ansia di andare avanti, sempre avanti, magari in Africa e ancora giù, fino all'Antartide… e adesso vuoi subito tornartene a casa. Chi ti capisce è bravo!»
«Tu, Gianni, non mi capisci, no!»
Gianni gridò una parolaccia, poi riprese: «Ma se abbiamo ancora tanti giorni a nostra disposizione! E ancora tanti soldi nelle mutande! Possibile che bisogna troncare qui tutto quanto?»
«Gianni, io non ti voglio certo costringere a tornare indietro. Tu se vuoi puoi continuare!»
«Beh, ma questo è ingiusto! Siamo partiti insieme e quando torniamo, torniamo insieme! Ma sei tu che devi convincerti a continuare il viaggio!»
«Io, per me, ho già deciso!»
«Cosa?»
«Che questo viaggio, così come lo stiamo facendo, non ha più alcun significato».
«Ma perché dici così? Avevamo trovato degli amici, no?»
«Va' da loro, se vuoi! Io torno indietro!»

Ma tutte queste discussioni sul ritorno erano una cosa astratta, perché tanto, automobilisti compiacenti che li prendessero su per riportarli a casa, non ce ne erano. E non perché non ci fosse traffico, ma per la diffidenza che si leggeva nei volti di quelli che, passando, li sbirciavano con la coda dell'occhio. Era già arrivato quasi mezzogiorno e ancora stavano lì.
Finalmente un 500' carica di gente si fermò a una cinquantina di metri più in là, qualcuno comprensivo sembrava avere raccolto la loro supplica!
Ma mentre correvano verso la macchina si domandavano dove avrebbero potuto entrare, posto che dal finestrino di dietro si vedevano bene accalcate tre grosse schiene.
E poi, quella strana fermata a 50 metri più in là…
Proprio mentre stavano per toccare la 500, questa ripartì. Una beffa! E loro, cretini, che ci erano cascati!
Verso l'una si fermò la macchina di un signore col cappello che, parlando sottovoce, chiese quanto erano disposti a pagare per un passaggio. Gianni rispose che non si sarebbero mai piegati a pagare per un passaggio, perché viaggiavano "per sport". E quello ripartì.
Infine passò una colonna di camion!
Gli amici camionisti! Quelli che per definizione trasportavano i beat! Quelli delle grandi superstrade americane citati nelle canzoni di Bob Dylan! Anche Daniele aveva inneggiato ai camionisti e alla loro libertà.
Ma nella fattispecie, quei camionisti, agli occhi dei nostri amici, si presentavano come dei rinnegati. Non solo non li caricavano, ma li guardavano dall'alto dei loro camion con aria di derisione. Alcuni li apostrofavano con epiteti che non si riusciva a capire, sia per il chiasso dei motori, che per il dialetto. Una sola frase capirono con certezza: "Iatevénne a casa!", che voleva dire "Orsù tornate a casa vostra!". Questo invito, oltre a indicare una assoluta mancanza di coscienza di cosa sia un beat che viaggia, risultava una grande presa in giro, in quanto i due stavano proprio chiedendo un passaggio per tornare a casa.
Era curioso, però, pensare a quanto fosse stato facile e rapido scendere giù, e come adesso invece risultasse difficile, e quasi impossibile, tornare su. Il piglio baldanzoso con cui i nostri due personaggi erano partiti, ora era completamente sfumato, e i gas di nafta, la prolungata attesa di una buon'anima che si fermasse, lo scoramento e la delusione per il tempo che passava inutilmente, e la fatica di tenere sempre quel pollice fuori - in un meridione che sembrava non conoscere il linguaggio dei beat - stava stampando sui loro visi un'espressione di stanchezza, di paura di essere sopraffatti dalla notte. I nostri amici avevano assunto quella che Gianni chiamava "aria da sfrattato".
Li salvò la chitarra. Un camion che portava mattoni si fermò e li caricò per avere un po' di musica. Musica che Daniele riuscì a non fare.
Chissà come, ma dopo aver vissuto quell'esperienza attorno al falò, ora aveva paura di toccare la chitarra. Lì si era sentito spogliato di tutto ciò che aveva di più intimo, gli sembrava di aver buttato al vento la sua anima. Aveva la sensazione di aver profanato la musica, qualcosa di sacro che esprimeva e portava la sua più vera realtà. Quelli che avevano cantato con lui attorno al falò non erano amici, anche se gli avevano donato un attimo di ebbrezza e di illusione. Cristina non era l'infinito, non era l'"amico", non era niente..
Il viaggio lo aveva portato a scoprire che non c'è niente da scoprire, che inseguire il sole che tramonta, come il gabbiano di una delle sue canzoni, è solo poesia, e non c'è nulla di reale. Non avrebbe mai camminato sulle acque e non avrebbe mai ritrovato l'Eden. Non esistevano posti incantati da conoscere.

Il povero camionista amante della musica li fece scendere davanti al suo cantiere, e da lì poi fu più facile per loro trovare un successivo passaggio. Di sera, stanchissimi e arruffati, arrivarono all'imbocco della statale che portava direttamente a Roma. Due poliziotti della stradale li cacciarono via dicendo che l'autostop era vietato. Poi, però, guardandoli in faccia, si impietosirono e li consigliarono di mettersi, almeno, un po' più fuori dalla strada.
I fari delle macchine li illuminavano coi loro fasci di luce, e poi tornava il buio. Poi ancora macchine e loro sempre col dito teso, e con sempre meno speranza.
Ancora un fascio di luce mobile che fece risplendere i loro occhi come vetro. Poi una vettura si fermò. Un ragazzone di quasi trent'anni.
Disse: «Vi ho caricato non certo per il vostro abbigliamento, Anzi, oggi come oggi si incontrano certi ceffi..! Ma vi ho osservati al di là di come vi siete cammuffati, ho visto due facce oneste!»
Era il fallimento di tutta l'anticiviltà beat. Daniele pensò che quel tipo, oltre ad essere un provinciale, apparteneva a un mondo ormai superato.
Quello cominciò a parlare dicendo che era un boy-scout, che credeva nei valori di fratellanza, nella politica, e che credeva in Dio.
Seduto di dietro, con la testa appoggiata al vetro del finestrino e gli occhi spalancati e vuoti, Daniele ascoltava, e non sapeva più cosa pensare. Sapeva solo che era stravolto dalla stanchezza.
Stava tornando.
Era come se l'immane piovra che lo aveva sempre tenuto nel suo grembo e dalla quale si era illuso di sfuggire, ora lo stesse nuovamente risucchiando a sé, dopo avergli concesso una breve scorrazzata e avergli fatto respirare un'illusione di libertà.
Aveva tentato un volo, la scoperta di qualcosa. Quattro giorni, non di più. La sua iniziazione beat non lo aveva iniziato a un bel niente.
Non che fossero mancate occasioni, ma forse era lui, che non era un beat.
Forse questa anticiviltà non c'era.
Chissà.
O forse no, no, era proprio lui che non funzionava. Aveva capito che le strane attrattive dell'orizzonte del mare, del cielo stellato, e dei profumi dell'aria che sembravano promettere lande sconfinate ed incantate, erano tutto là, sensazioni e basta. L'infinito nel mare e nel cielo non c'era, le terre incantate non c'erano: c'era l'incanto, quello sì, ma era una cosa della sua anima, che poteva mettere addosso a qualunque cosa e anche addosso a qualunque persona.
Il boy-scout continuava il suo soliloquio parlando, adesso, di impegno sociale, una cosa che Daniele non riusciva a capire.
Versò una lacrima. Possibile che era costretto a tornare sconfitto? Che non aveva trovato l'infinito?
No!
Sentì una ribellione nel più profondo di sé.

Intanto la macchina si avvicinava alla città, ed erano sempre più numerose la case, le luci, i bar. Ogni finestra illuminata suggeriva alla fantasia una famiglia, una cena, persone che parlavano tra di loro. O anche persone sole, persone tristi, persone vecchie.
E le finestre illuminate aumentavano sempre più, mentre il boy-scout riconduceva i nostri amici a casa. La realtà era quella, non le irraggiungibili spiagge di Atlantide, ma il boy-scout che guidava e blaterava, e tutta quella gente che abitava la città, il suo mondo.
E improvvisamente Daniele intuì qualcosa. Forse non era detto che aveva perso, che tornava sconfitto, che l'infinito non l'avrebbe trovato perché non esisteva.
L'infinito c'era, eccome, e lui poteva ancora trovarlo.
Magari era lì, nella vita di ogni giorno, fianco a fianco con i suoi compagni, con i suoi familiari, con le persone della strada.
Non doveva smettere di cercare l'infinito, quell'infinito che dentro di sé sentiva che doveva esserci.
Il viaggio che aveva cominciato, allora, non era finito, ma continuava.
E sorrise.

 

*      *     *

 

E su questa avventura, quanche anno dopo, feci questa canzone: ANDAI

Mentre la citata canzone IL GABBIANO, è questa: IL GABBIANO